Come eravamo : Tannu …gùsavadi accussì

La Redazione & Minucciu

Dopo una lunga pausa riprendo nuovamente il resoconto sull’ambiente sandonatese dei tempi passati.

Tannu …gùsavadi accussì

E le femminucce? Seguivano l’itinere dei maschietti fino ai sei anni di età. Poi la formazione si differenziava perché nelle donne prevaleva l’educazione alla casa, alla famiglia, ai figli. Se nei maschi era preminente l’indirizzo verso la produttività, “à fatìga” in tutte le sue versioni, nelle femminucce l’indirizzo era verso l’amministrazione dei beni, la cura e l’educazione dei figli, il governo, l’organizzazione e la custodia della casa, intesa come immobile, come nucleo familiare, come insieme delle sostanze possedute, poche o tante, misere o ricche, non aveva importanza. Fin da piccola la femminuccia era “attaccata” alla mamma ed alle altre donne di casa dalle quali doveva imparare tutto ciò che poteva tornarle utile una volta cresciuta ed accasata. Fra i giochi delle bambine, vi erano “ì shjscjuli”, (cocci che simulavano arredi e dotazione della cucina casalinga), trastullo generalmente associato a “ì cummàri” col quale si imitavano i rapporti di relazione e vicinato fra madri di famiglia, completato da “ì bàmbuli”, gioco con fantocci antropomorfi, prodromo ed anticipo giocoso delle attività connesse alla futura condizione di madre ed al susseguente atteggiamento protettivo verso i figli. Rientravano nella categoria dei più ricreativi e dilettevoli i giochi “pètricìnqui”, e “càmpana”. Assieme ai giochi veri e propri la bambina iniziava a praticare, seppur in forma ludica, tutte quelle attività domestiche proprie della madre di famiglia quale “cùsi”, “filà”, “mpastà”, “còci”, “lavà”.

Mentre al maschietto veniva acconsentita una certa “liberta”, la femminuccia era più sorvegliata, giocava prevalentemente nelle immediatezze di casa, era più vigilata ed abituata ad un atteggiamento contegnoso e riservato. Alle più ”ardite” veniva insegnato che la donna educata, “nà signora ì fìmmina”, aveva sempre occhi e testa bassa, perché il guardare direttamente al volto, nel migliore dei casi voleva dire mostrare superbia e nelle altre ipotesi, civetteria, il che era interpretato quale segno premonitore di “puòddhula” che, non corretto per tempo, la poteva destinare od indirizzare verso la perdizione. Doveva giocare sulla soglia di casa, a portata d’occhio e di voce dei familiari e trovare compagne di giochi frequentando l’abitazione di parenti o di qualche vicina fidata. Continua a leggere

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Il mio Paese…Maria Pia Sparano

Luigi Bisignani & Maria Pia Sparano

Delle volte piccole frasi fanno capire la grandezza dell’amore che si ha nel cuore per il proprio Paese.

Il mio paese?
È San donato !Ero piccola e l’ho lasciato
Ricordi confusi nella mia mente
Ma il bel ricordo è della gente
Mangiate, risate ed allegria
Quando si stava in compagnia
Vicini affettuosi sorridevano felici
Ed eravamo tutti amici
Bastava poco per essere contenti
Ed eravamo tutti sorridenti.

A San Donato…Maria Pia Sparano.

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Una vita in fuga…di Pasquale Giannino

La Redazione & Pasquale Giannino

Una vita in fuga – Racconto apparso su Oggi Famiglia

3 marzo 2010 alle ore 11.56

Il paese era in festa. Come sempre, d’estate, le vie gremite di giovani con abiti alla moda. Gianni era un adolescente timido. Andava bene a scuola e prendeva lezioni di pianoforte. Aveva concluso il primo anno di liceo scientifico con la media dell’otto. Non era riuscito a superare l’esame di ammissione al conservatorio, ma continuava a recarsi due volte la settimana dal maestro Iannuzzi.

“Non devi scoraggiarti Gianni, capitò anche a Giuseppe Verdi!”

“Maestro, io penso di non esserci portato.”

“Studio, Gianni, applicazione! Sai cosa diceva il grande Rossini?”

“Non ne ho idea.”

“Solo il dieci per cento dell’arte è dovuta al talento. Il rimanente è studio!”

San Donato di Ninea (CS)

E intanto suo padre Antonio, insegnante di matematica, si recava ogni mese dal collega per pagargli le lezioni: trentamila lire l’ora. Sua madre si era diplomata da maestra, ma non avendo superato il concorso – dopo alcuni anni in giro con la vecchia Cinquecento per le supplenze – decise di votarsi alla famiglia. Aveva un altro figlio di un paio d’anni più piccolo, Francesco, molto più estroverso e casinista. Antonio, per arrivare alla fine del mese, arrotondava con lezioni private.

Gianni detestava il gioco del calcio e lo sport in genere. L’ora di educazione fisica era per lui una sofferenza. Se ne stava in disparte a osservare i suoi compagni euforici e spensierati. Non aveva amici. Trascorreva il tempo libero a leggere racconti di avventura e talvolta si recava in piazza, entrava nel bar e chiedeva un gelato. Frattanto osservava i grandi che affollavano il locale: alcune persone dalla barba incolta e trasandate giocavano a carte tra urla e imprecazioni di ogni genere; un signore dall’aria distinta, i gemelli d’oro e un fiore all’occhiello, giocava a biliardo col barista Luigi, uomo di mezza età calvo e allampanato, la sigaretta sempre accesa; nella sala attigua, nugoli di ragazzini incollati ai videogiochi.

Gianni rimaneva nel suo cantuccio il tempo necessario per finire il gelato. Si sentiva un estraneo in mezzo a quella gente chiassosa. L’odore del fumo lo stordiva. Se ne andava con un profondo senso di nausea e di indefinito malessere. D’estate ritornavano gli emigranti. Le vie si affollavano di giovani allegri e sicuri di sé, dalla profonda inflessione settentrionale. Si udivano anche accenti toscani, romani, partenopei. Le auto di grossa cilindrata con targa straniera stentavano a trovare posto. Insomma, il paese pareva svegliarsi da un profondo letargo. Cedeva il posto a una comunità nuova, straordinariamente variegata: una comunità che ospitava tanti piccoli frammenti dell’Italia e del mondo. Gianni era sempre solo. Ma si sentiva rinascere anche lui. Il signore distinto del biliardo rimaneva sempre in piazza a dispensare sorrisi e strette di mano. Luigi era indaffarato dietro al bancone e sembrava piuttosto insofferente, come se quella moltitudine fosse giunta apposta per infastidirlo. Pareva aspettare con trepidazione il ritorno alla normalità: i commenti sul campionato di calcio, le partite a biliardo, qualche bicchiere in compagnia dei soliti avventori. Gianni sognava di diventare grande e andare al nord. Ritornare ogni estate in paese, ben vestito e con una bella auto, e attraversare la piazza sicuro di sé e stringere la mano a tutti e offrire da bere. Continua a leggere

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Come eravamo :Zà Marìa.

La redazione & Minucciu

Zà Marìa.

Zà Marìa.

La vecchia del vicinato ci raccontava storie sui sandonatesi fra i quali rammentava spesso una zà Marìa, descrivendola avanti negli anni, “vècchiarèddha” e curva su se stessa. Diceva che tutte le mattine e con qualsiasi tempo, la potevi trovare accoccolata sui gradini della chiesa, in attesa che il sagrestano aprisse la porta per la prima messa. Umile e dimessa “à vècchiarèddha” entrava in chiesa e prendeva posto sempre allo stesso banco e dopo il rituale segno di croce iniziava le sue silenziose preghiere battendosi frequentemente il petto, riconoscendo con detto gesto le sue colpe ed esternando pentimento per i propri peccati.

Lo stesso atteggiamento umile zà Marìa lo teneva quando, seduta sulla soglia di casa, riceveva i saluti dei passanti ai quali rispondeva sempre con una buona parola e se necessario, con espressioni di conforto ed incoraggiamento.

Chi raccontava questa storia, rammentava che da ragazza, per la celebrazione di una messa in suffragio, alla quale la sua casata doveva per forza presenziare in quanto “bricati” verso la famiglia del defunto, gli venne delegata la rappresentanza della famiglia ed andò in chiesa in compagnia di una vicina di casa. La celebrazione era stata fissata al mattino presto, ciò per evitare che i partecipanti perdessero “à jùrnàta”. Fu in quella occasione che durante la funzione, incuriosita dal fervore religioso e dai gesti di pentimento di zà Marìa, passò più tempo a guardare lei che non a seguire il prete all’altare.

La vicina di casa che si era accorta dell’interesse verso la vecchietta, durante il ritorno a casa gliene chiese ragione. L’allora bambina spiegò che zà Marìa sembrava una personcina ammodo, sempre gentile e disponibile e che l’aveva colpita l’aspetto sofferente, la schiena curva, la corporatura molto magra e la pelle rinsecchita, forse dalla fatica, dal duro lavoro e dalle tante giornate passate al sole. Questa era l’idea che si era fatta, eguagliando zà Marìa alle altre vecchie del paese ed il cui aspetto rifletteva una vita di sofferenze e fatica.

La vicina disse che poteva anche essere vero quel che l’aspetto ed il volto di zà Marìa faceva immaginare. Le cose pero erano diverse, molto diverse perché dietro l’aspetto dimesso e sofferente si celava “nà cèffa”, “n’armàniu ” sanguinario e crudele che all’occasione, poteva ancora colpire e far male. Non usando la forza fisica, per via dell’età, ma moralmente ancora si. Aveva lingua velenosa e tagliente ed una memoria di ferro. Zà Marìa sapeva e rammentava tutto di tutti, specialmente episodi e circostanze che ognuno avrebbe voluto tenere riservate. Gli ossequi che riceveva, non erano manifestazioni di stima, riguardo o deferenza, ma in maggioranza erano dettati da paura. La si ossequiava, perché così facendo si evitava la sua ripicca, e che si lasciasse andare a maldicenze.

Zà Marìa era nata da buona famiglia, ammodo e con beni al sole. Come tutte le ragazze della sua condizione economico sociale, era destinata ad un buon matrimonio ed a una vita con pochi o relativi sacrifici. La natura aveva però disposto altrimenti e l’aveva dotata di un carattere forte e volitivo, le aveva fornita ed in dosi abbondanti, prepotenza, altezzosità, indisponenza ed uno smisurato istinto da predone. Continua a leggere

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Festa di San Giuseppe…alla Ficara.

Luigi Bisignani

Si é tenuta oggi,19 Marzo 2014 la festa di San Giuseppe

alla Ficara,organizzata dall’associazione “Amici dalla Ficara”

 

  un programma succolento dopo la messa delle ore 18h00

alle 19 si degusteranno LAGANI E CECI .

fatti a mano dalle amiche e mamme della Ficara

Presso l’ex edificio scolastico della Ficara.

alla fine ci sarà le distribuzione del

PANETTO BENEDETTO a tutte le famiglia.

 

 

 

 

 

 

 

Un grande grazie e bravissimi

a  tutta questa bella compagnia

di tenere sempre alto queste usanze Sandonatese

 

 

 

 

 

 

 

 

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On si santunatisi, sì……

La redazione & Minucciu

In questo Periodo come tutti gli anni c’é una moda ,oggi la moda é sul network e specialmente su facebook di chiedere ai membri di un gruppo “sei di…se…”

allora Minucciu ha voluto scrivere qualcosa su ” Sei di San Donato di Ninea se…

e vi ricordo che anche noi abbiamo questo tipo di gruppo “Sei di San Donato …se” oltre al gruppo ormai ben conosciuto Amici di San Donato di Ninea nel Mondo.

Nnè bìbbia nnè bbangèlu

Ma “cosa” è necessario per qualificare un sandonatese verace?. Bella domanda, né oziosa né vagabonda. La risposta non risulta facile né, ritengo, basti o ne sia sufficiente una sola. Ce ne vogliono tante, ma tante quante sono le superstizioni, le credenze, gli usi, i costumi, insomma quanto è tutto quel bagaglio di tradizioni che affondano radici nei secoli della storia sandonatese. Ciò è necessario, anche se nessuno, fra i nostri avi, questa storia l’ha scritta, limitandosi a tramandarla in forma orale e senza preoccuparsi di tutto quello che andava perduto, causa le modifiche o dimenticanze di quelli che storia e tradizioni le trasmettevano, raccontandole alle generazioni successive.

Pescando nei ricordi di “quatràru” e nei racconti uditi dagli anziani, tento di elencare tutto quel che i nostri vecchi avevano sperimentato e vissuto per poter vantare d’appartenere alla razza sandonatese. Il “curriculum” doveva tutto quel che il comune sentire riteneva essenziali per un buon sandonatese, nella buona e nella cattiva gestione che ciascuno faceva della propria vita.

Avverto che il seguito di questo “excursus” procede fra il serio ed i faceto, “fìssiànnu fìssiànnu” e nessuna delle circostanze deve ritenersi presente ed obbligatoria nel “cursus honorum” del sandonatese”, nel senso che non è obbligatorio aver fatto tutte le “esperienze” che illustrerò, basta averne realizzato, compiuto o messo in atto solo una parte.

Inizio dall’età più tenera e più importante perché era proprio lì, in quel periodo che il sandonatese vero prendeva forma e corpo.

Dopo questa la premessa, possiamo dire che. “On si santunatisi, sì……”:

-‘On sì stàtu àffasciàtu cùmu nù bomminieddhu à vràzza ajìntu.

-‘Ont’ànu assìmigghjàtu subbitu à ggùnu dà pàrintèra;

-‘Ont’ànu mìsu sùbbitu l’àbbitìnu ppù cùntramaluòcchiu;

-Ppi ti fa stà cìttu òntànu mìsu mmùcca u sùcatùru ì cuttùni ntìntu ntà l’àcqua e rù zùccaru;

-‘Onn’àsi màdi durmùtu frà dùi cùscini, ntò lièttu grànni;

-‘On sì stàtu mìsu ntò manghanièddhu;

-‘Onn’àsi mài mangiàtu ù pànicuòttu;

-‘On sì stàtu mài àffascinicàtu e n‘tò vicinànzu à vècchiarèddha òn ntà fàttu ù cùntraffàscinu; Continua a leggere

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Emergenza spazzatura…

La Readazione & Diritto di Cronaca

Emergenza spazzatura, Coppola scrive alle autorità competenti

(Comunicato stampa) Anche il Sindaco del Comune di Altomonte Gianpietro Carlo Coppola scrive alle Autorità competenti (Presidente della Giunta Regionale della Calabria, Assessore Regionale all’Ambiente, Al Direttore Generale Dipartimento Ambiente – Regione Calabria, Signor Prefetto di Cosenza), sulla drammatica situazione inerente la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti nel Comune di Altomonte.
Il Sindaco Coppola scrive: “Con la presente si segnala alle SS.LL. in oggetto che la situazione determinatasi in Altomonte a seguito delle continue interruzioni nei conferimenti degli RSU alla discarica di Pianopoli (CZ) da Loro scelta ed indicata al nostro Comune per il conferimento dei rifiuti è diventata ormai insostenibile. Negli ultimi 15 giorni i mezzi addetti alla raccolta hanno potuto essere svuotati solo 5 volte, in maniera discontinua ed assolutamente saltuaria, con il determinarsi di un grande accumulo dei rifiuti per le strade, nei pressi dei cassonetti ed in ogni dove. Il clima di disagio ed insofferenze nella popolazione, tra l’altro tartassata dalle tasse ed in questi giorni esasperata dal pagamento dell’ennesimo gravoso balzello (la tassa sui servizi indivisibili legati alla tariffa TARSU o TARES voluta dal Governo italiano ed a lui destinato e pari a ben 30 centesi al metro quadro – per inciso dal 2004 al 2014 il Comune di Altomonte ha aumentato le tariffe della spazzatura di soli 12 centesimi al mq in 10 anni!!!! – e che è in pagamento proprio in questi giorni !!) sta degenerando, ed ha già portato ad atti vandalici ed all’incendio di alcuni cassonetti. Inoltre, gli accumuli indiscriminati, gli avversi agenti atmosferici e gli animali randagi fanno scempio dei sacchetti abbandonati, con una situazione che è diventata di vero degrado e di pericolo sanitario. Il Comune ha fatto tutto ciò che era in suo potere, posizionando nelle strade tutti i cassonetti funzionanti che si hanno a disposizione ed utilizzando ogni mezzo e soluzione possibile, tranne quella di creare discariche abusive. Si segnala altresi che, per i noti vincoli di bilancio, il Comune di Altomonte ha il corpo di Polizia Municipale composto da un solo (1!!) vigile urbano e non può perciò efficacemente controllare un territorio di circa 70 chilometri quadrati con 28 contrade rurali, e dove da molti giorni gli abitanti di Lungro, Firmo,San Donato di Ninea e Acquaformosa (ove le società chiamate a fare la raccolta differenziata hanno abbandonato il servizio e la raccolta è ferma) vengono a lasciare rifiuti.
Se la situazione, drammatica ed urgente, non dovesse sbloccarsi nelle prossime ore lo scrivente si vedrà costretto ad avviare ogni azione necessaria ed indifferibile per tutelare la salute pubblica, a partire dalla chiusura delle scuole, dell’ambulatorio comunale, dell’ufficio postale ecc.
Il sottoscritto non è in grado invece di poter prevenire o reprimere problemi di ordine pubblico e di sicurezza che dovessero crearsi qualora il malcontento e la giusta protesta dei cittadini dovessero travalicare. Tanto comunicato alle SS.LL. ed al Signor Prefetto di Cosenza per conoscenza, lo scrivente declina fin da ora ogni responsabilità per quanto dovesse verificarsi nelle prossime ore e che è imputabile solo ed esclusivamente alla mancanza di intervento e di ulteriori risolutorie disposizioni da parte Loro. Continua a leggere

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Ode alla mia valle

Luigi Bisignani

inviato da Domenico Trinchese & Anna Trinchese

Ode alla mia valle

Come era verde la mia valle di castagneti

felci e granoturco.

Quando dall’alta costa la guardavo

una dolcezza in core mi sentivo.

Quanto eri bella sotto il verde manto,

fulgida come l’acqua delle fonti,dove mi

rispecchiavo tutto quanto.

Ora nemmeno tu sorridi tanto,quando torno

indietro a quei momenti quando di poesia

riempivi il core e il tuo verde invitava all’amore.

Gli anni son passati,

ora non splende più la verde valle,

le foglie gialle e tristi son per terra,

come il mio cuore triste e malandato

che rimpiange di averti lasciato.

 Mia dolce valle verde e gaia,

perchè anche tu ti sei intristita?

Anche tu sei cambiata,e hai sofferto tanto valle mia ,

quando i tuoi figli se ne andaron via.

 Lontano andammo in cerca di fortuna,

una fortuna effimera e sfuggente

e ai tuoi figli non rimane niente.

Era meglio se con te fossi restato

mia doce valle amica del passato.

Ricordo ancora il tuo profumo agro

di felci mentuccia e sambuco.

 Tutta fiorita mi sembravi ,come la 

giovinezza che sbocciava.

AH giovinezza, giovinezza mia,quando pensavo

che potessi esser mia spiccasti il volo

e te ne andasti via. Continua a leggere

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Nostalgia del paese natio

Anna

Nostalgia del paese natio

 Chiesetta cara dalle mura antichedove nessuno più viene a pregare,

ricordo che nel giorno dell’Ulivo

la gente intorno a te stava a osannare.

 Ed anche il giorno del Santo Natale

splendevano dei ceri sull’altare.

Quando torno al caro pesello e

vedo le tue guglie da lontano

penso ai tuoi muri decaduti e

stanchi,tutto qui e miseria e

abbandono.

Il pensiero della gente è ormai

lontano ,rivolto alla gloria e al denaro.

 Tornerò un di chiesetta cara, dolce paese

dove sono nata e mentre parto sento un

nodo in gola ,che solo ritrovandoti un di

si scioglierà.

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La tradizione del maiale in Calabria.

Luigi Bisignani & Pasquale  Loiacono

La tradizione del maiale in Calabria
Dalla macellazione alle pietanze

Per secoli il maiale è stato al centro dell’alimentazione in Calabria con l’allevamento dell’animale la sua macellazione e la preparazione degli alimenti che poi, in una sorta di vera e propria festa, vengono consumati dall’intera famiglia

 

Un momento della preparazione del maiale

IL maiale è stato per secoli la dispensa dei calabresi e non solo: la sua macellazione, rigorosamente fatta in casa sino ad una ventina di anni fa, era un rito antico al quale partecipava tutta la famiglia. Una festa, forse cruenta, che ha segnato e scandito la vita di un’intera regione. Quasi tutti avevano il porcile, il “zimmunu” (dal tedesco “zimmer”, stanza) ove ricoveravano ed allevavano il maiale con gli avanzi di cibo pasturati con la “caniglia”, la crusca. I “zimmuni”, vere e proprie porcilaie, erano concentrati per lo più in grotte scavate nel tufo e comunque fuori dal centro abitato: una volta al giorno, generalmente nel primo pomeriggio, era una processione interminabile di donne con in testa l’ondeggiante secchio della “vrurata” da svuotare nella “scifella” (una sorta di contenitore ad angolo fra due lati del “zimmunu” e rialzato per non far traboccare la brodaglia) ove si avventava, voracissimo, il porco, con gran soddisfazione del proprietario che lo vedeva ingrassare giorno dopo giorno e già pregustava salsicce, soppressate, prosciutti e tutto il ben di Dio che dall’animale si ricava.

Quando il maiale superava il quintale, generalmente fra dicembre e febbraio, ci si preparava all’uccisione della bestia, anche perché il freddo dell’inverno era l’ideale per la conservazione della carne e la stagionatura dei salumi. Prima della data stabilita si cominciava ad “ammolare” i coltelli e a preparare la “mailla” (madia). La mattina dell’uccisione le donne si svegliavano che era ancora buio per preparare un enorme pentolone di acqua bollente che sarebbe servita successivamente per radere le setole del porco. Alle prime luci dell’alba, gli uomini prelevavano il maiale  preceduto da qualcuno con un secchio di ghiande rumoreggianti allo scopo di farsi seguire docilmente dal maiale, affamato ma riottoso (a bella posta non gli si dava da mangiare nelle ore precedenti l’uccisione per favorire lo svuotamento delle budella), il quale probabilmente intuiva la sorte che gli sarebbe toccata da lì a poco.

L’uomo che avrebbe poi scannato la bestia preparava un nodo scorsoio con una corda, quindi si avvicinava all’animale e, con molta abilità, ne agganciava l’incisivo facendo due o tre giri attorno al muso per impedirgli di mordere. Altri afferravano il suino, tenendolo saldamente e scaraventandolo su una grossa panca. I più pavidi, invece, avevano il compito di stringere la coda: operazione inutile, tanto che ancora oggi, se si affida a qualcuno una mansione simbolica, senza alcuna responsabilità, si dice che “tiene la coda al porcello”. Il carnefice, munito di un coltellaccio lungo ed affilato (“u scannaturu”), tranciava di netto la giugulare del porco che si dimenava lanciando grugniti altissimi e spaventosi rimbombanti in tutto il paese. Fra i bambini eccitati c’era anche chi, più sensibile, si nascondeva, tappandosi le orecchie per non udire quegli strepiti disperati. Il sangue, che zampillava copioso dalla gola del porco, colando in una pentola era rigirato continuamente con un mestolo di legno per evitare che coagulasse. Esso, infatti, sarebbe stato poi l’ingrediente principale del sanguinaccio, una dolcissima crema da spalmare sul pane, di cui i bimbi di un tempo erano ghiottissimi. Dopo una lenta agonia il povero animale esalava l’ultimo respiro ed allora ci si preparava a raschiare la cotenna.

Quando anche questa operazione era terminata, il “macellaio” incideva la pelle delle zampe posteriori facendone fuoriuscire i tendini nei quali veniva infilato un attrezzo di legno a forma di triangolo senza base sicché, con l’aiuto di una carrucola, o più semplicemente a forza di braccia, l’animale, per essere squartato, veniva issato ed appeso ad un gancio che spuntava dal soffitto. A questo punto aveva inizio un’operazione complessa e delicata nella quale emergeva tutta la perizia del “macellaio”. Per prima cosa estraeva l’apparato genitale dell’animale, che veniva usato poi dai falegnami per ungere le seghe, quindi tagliava la testa. Poi passava, delicatamente, ad aprire il ventre dal quale cavava la vescica, subito affidata ad uno degli aiutanti perché, dopo averla svuotata, la lavasse accuratamente e, con l’aiuto di una cannuccia, la  gonfiasse. La vescica, nei giorni successivi, era riempita con lo strutto ancora caldo e liquido che, dopo qualche giorno, solidificava. Dunque, con molta attenzione, onde evitare di forare le budella, toglieva tutto l’apparato digerente, il colon e l’ intestino tenue. Continua a leggere

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