Ù parlàtu antìcu.

Luigi Bisignani

San Donato di Ninea 17-12-2024

Minùcciu bbì cùnta cùmu ghèramuu:

Ù parlàtu antìcu.

 

‘Ntò mìsi i màju dò 1953, quànnu ccù dòn Francìscu Mònacu ccì facièj à sìcùnna de’ lementàri, prìmu ì chjùdi l’anno ì scòla  ù màstru nnà cummannàtu i gìrià ù paìsi e jì addhùnni à ggènti cchjù grànni ed’addimmannà s’aviènu ammènti e nnì putiènu da cùntu d’è paròli c’òggusàvanu cchjù.

‘Nn’àvìama scrìvi tùttu quìru chi nnì vinìa dìttu, c’àll’ànnu dòppu nnìcciavèra dìttu tùttu quìru chi cc’èra dda sàpi sùpa ù parlàtu, ed’ammacàru ù ppìcchi e ru piccùmi i quìri paròli antìchi, cà d’à parlàta ghèranu cadùti.

Òll’àju affirràtu sùbbitu tùttu quìru chì, sùpa e sùtta, cc’èradi ntò cummànnu i don Francìscu, nnè ù putìaj fà, c’à sett’ànni màncadi abbòja rròbba àri cièrivi pp’arrivà a ffà ssà pinzàta.

Nùi quatràri quìru c’avìamu a fà, l’àmu fàttu, però dà còsa pùa onn’àmu fàttu nènti e ghè rimàsta fèrma ppìcchi, l’ànnu doppu a don Francìscu ddh’ànu dàtu nà prìma ed’annùj ì quìra sicùnna, ppì ffà à tèrza nn’ànu spèrsu ccù g’àti màstri.

Gànni dòppu, dicìmu nà cinquantìna, g’àju gashjàtu ù librèttu addhùvi avìa scrìttu tutti ì paròli antìchi e cèrca, pròva e ripròva, pirdiènnuci ancun’ànnu, gàju lèstu quìru chi don Francìscu nn’avìa cummannàtu, ed’àju pùru affirràtu quìru cchì cc’èra ntò “vizinièttu i storia” c’ù màstru nnì vulìa fà scupirchià e capìsci.

Quìru cristiànu, ppì cùmu l’àju vìsta e pinzàta ghja, avìa  ncàpu i nnì fa rènnu cùntu i quàntu gheradi ùnica, antìca, rìcca è bèddha à parlata antica de’ sàntunatìsi, e tàli gheradi ancora pùru dòppu ch’èra stàta rujnàta ppi sèculi, de’ guèrri, de’ vittimìj e de’ scarmiènti i quìri cà ntè tèrri nòsti c’erano vinùti ad’arrubbà, à purtà mpìcci e dammàggi, quìri cch’èranu stàtu dannarùli, nn’avìanu scriàtu à parlàta e rà ràzza, ma avìanu pùru lassàtu stòzza do’ sàngu sùa, mòdi i fà e paròli chi ddh’àppartiniènu.

Venticinque secoli fa, delle nostre terre erano padroni i popoli di lingua osca, quelle fiere tribù che occupavano i rilievi appenninici, dai monti dell’Abruzzo proseguendo sul filo degli apennini sino alle terre calabro-lucane.

Nonostante la latinizzazione imposta dai romani in seguito alla conquista delle terre bruzie (con “naturale” prosieguo di sterminio e deportazione della irriducibili tribù di razza e lingua osca) e nonostante frequenti guerre ed invasioni (nel corso delle quali ogni invasore imponeva lingua, leggi, uso e costumi propri), nel dialetto sandonatese, dopo i secoli di “supplizio linguistico”, sono ancora presenti alcuni vocaboli della arcaica lingua osca, usuale nei popoli di stirpe osco-sannita-lucano-bruzia, stabili nelle zone collinari e montane dell’appenino calabro-lucano, fra le quali anche le terre di San Donato.

La conservazione, di alcuni dei termini di questo antico idioma nel nostro parlato, è da attribuire ed individuare: nell’arcaica indole, particolarmente conservatrice dei sandonatesi, caratteristica che li rende  poco permeabili alle “novità”; nell’orografia della zona, arroccata su uno sprone circondato monti a da boschi, circostanza che l’ha resa di non facile accesso e non particolarmente appetita dai non nativi quale luogo di residenza.

Altra circostanza, che ha consentito la trasmissione e la conservazione di termini dell’antico parlato, ancora presenti nel dialetto sandonatese, è quella derivante da assenza o sporadici rapporti dei sandonatesi con estranei, ciò per una viabilità quasi assente e per aver avuto collegamenti attraverso mulattiere tortuose o sentieri di crinale difficoltosissimi, tutti fattori che hanno indotto un isolamento durato secoli e parzialmente interrotto, nel secolo XVII, dalla viabilità voluta e realizzata dai principi Sangineto, con lo scopo di collegare “ i fòrgi dà Spilùngura” alla piana di Altomonte, ed ivi trasportarvi metalli legname ed altri prodotti nel territorio sandonatese.

Hanno contribuito ad isolare l’abitato di San Donato le frequenti piene e straripamenti nei corsi d’acqua che ne attraversano le terre e che, per secoli, hanno reso le zone della piana una plaga acquitrinosa e malsana, invivibile e di difficile accesso o percorrenza.

Nonostante l’isolamento dell’abitato e l’indole conservatrice dei sandonatesi, non è stato possibile preservare interamente la lingua osca, il cui uso ha iniziato a declinare quando le nostre terre sono ricadute sotto il dominio di Roma.

Per mantenerne il controllo di popoli e territori vinti e conquistati, l’esercito romano non ha esitato a massacrare le rivoltose popolazioni bruzie, alle quali ha imposto le proprie leggi e la propria lingua,  a detrimento di quella osca, il cui uso venne prima scoraggiato e successivamente proibito.

Altro grosso colpo all’uso del parlare osco, si ebbe nell’alto medioevo con la diffusione dell’istruzione, la quale, fu si fonte di conoscenza ma consentì e diffuse l’uso del volgare latino e l’affermarsi del volgare italiano (dialetto toscano) a detrimento delle lingue locali in uso presso le varie genti stanziali nella penisola italica.

Molte “isole linguistiche”, fra le quali quella sandonatese, sopravvissero nella semiclandestinità. A continuare ad usare e trasmettere alle future generazioni il linguaggio degli osci, del quale alcuni vocaboli ancora presenti nel nostro parlato, fu il popolo minuto rimasto analfabeta (nel nostro caso la quasi totalità dei sandonatesi) che, nel parlare comune, mantenne e tramandò fino ai nostri giorni molti termini dell’antico idioma osco.

Cito ad mò di esempio i termini: zìa; zia  vètti, bastone; trajnu, carretto; tìmpa, grosso sasso o rilievo del terreno; tàta, padre; scioscè, sorella; misàli, tovaglia; magara, maga, strega; maatreís , madre; fratru, fratello, aíkdafed, fravicà;

A sradicare quasi del tutto la lingua osca furono: accadimenti e necessità legati a contatti con altre popolazioni, dalle quali furono mutuate parole poi entrate nell’uso comune; guerre, invasioni, fenomeni migratori con integrazione di nuovi venuti che hanno influenzato e adeguato usi, costumi, cucina e linguaggio; l’instaurarsi di rapporti economico-commerciali coi circonvicini, divenuti più frequenti attorno al XIV secolo, quando furono istituite ed autorizzate numerose “fiere”, richieste da feudatari e signori locali e tenute in occasione di ricorrenze o festività religiose.

Linguisticamente la considero una enorme perdita perché, con la desuetudine della lingua osca, passarono, vennero trascurati ed infine dimenticati anche antichi riti, usi, costumi, tradizioni della “gens bruzia”, fiera ed antica popolazione, che della propria identità, indipendenza e orgoglio aveva fatto fede e per difendere la quale non esitò ad affrontare e combattere l’invasore romano fino all’estremo sacrificio.

La lunga e sanguinosa “resistenza bruzia” si concluse nel 71 a.C. con la sconfitta subita ad opera delle truppe comandate dal console Lucio Grasso, nella battaglia del fiume Sele in Campania, cui seguì lo sterminio dei ribelli di Spartaco, oltre la metà dei quali composta da “gens bruzia”, crocifissi ed arsi lungo la via che collega Capua a Roma.

Accontentata la storia, vediamo da vicino i caratteri della lingua osca, la cui scrittura si stendeva da destra verso sinistra, quindi in senso inverso al nostro modo di scrivere, ma identico a quello di molte lingue antiche dell’area mediterranea, esempio ebraico ed arabo.

La scrittura osca è stata quasi un unicum nel mosaico linguistico dell’Italia preromana; il motivo è legato all’utilizzo di tre alfabeti differenti: uno di elaborazione locale, su modello etrusco, in uso soprattutto in Campania e nel Sannio; uno sul modello dell’ alfabeto greco, con adattamento in Lucania e nel Bruzio, mentre l’alfabeto latino è stato individuato nei documenti elaborati durante la ”convivenza” e prima del definitivo assoggettamento ai romani.

Nell’alfabeto osco vi erano un numero minimo di 19 lettere e un massimo di 23, non aveva lettere maiuscole e graficamente reso così come raffigurato nel riquadro sottostante.

Nell’alfabeto osco vi erano un numero minimo di 19 lettere e un massimo di 23, non aveva lettere maiuscole e graficamente reso così come raffigurato nel riquadro sottostante.

 

 

 

 

Gli elementi di conoscenza della lingua osca ci sono pervenuti da testi scritti (iscrizioni su cippi lapidei e  tavolette di rame rinvenute durante scavi),  recuperati durante scavi archeologici, fra i quali rammentiamo: le iscrizioni di Pompei, il Cippo Abellano, (sul quale è riportato un trattato fra le città di Avella e Nola in Campania), la Tavola di Agnone (un calendario rituale), le Iùvilas di Capua (iscrizioni di gruppi familiari connessi con cerimonie specifiche), la Tavola bantina (esteso documento che riguarda la legge municipale di Bantia, attuale Banzi, PZ), le defixiones (tavolette esecratorie, recanti maledizioni); le iscrizioni pubbliche del sito italico di Pietrabbon- dante in provincia di Isernia; le iscrizioni del santuario lucano di Rossano di Vaglio in Basilicata.

Finora non è stata rinvenuta alcuna opera letteraria (i bruzi pare non fossero inclini alla letteratura fine a se stessa) e non è possibile determinare pronunzia dei termini mentre i significati delle parole sono ancora oggetto di studi.

Questa “carenza” sulla conoscenza della lingua osca può essere anche conseguenza delle distruzioni e degli incendi occorsi durante le guerre romane e le successive scorrerie di popoli di varia etnia, venuti nella penisola per razziare ciò che restava delle ricchezze accumulate durante le conquiste romane.

L’annientamento di lingua, cultura e civiltà osco-bruzia ha interessato la totalità dei territori ove la gente bruzia era stanziale, per quel che ci riguarda direttamente l’intera penisola calabra, terre di san donato incluse.

Da quanto accaduto e fin qui narrato, vi è la certezza che i termini di derivazione osca, ancora presenti nel dialetto sandonatese sono rimasti pochissimi, forse una quindicina in tutto.

Dicembre 2024                                          Minùcciu

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

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