STUOZZI I STORIA: U’ dàzziu; parte seconda;

Luigi bisignani 

STUOZZI I STORIA: U’ dàzziu; parte seconda;

In questa seconda parte il Padula diede il meglio di se,come calabrese e come appartenente alla borghesia illuminata, classe sociale che tanto danno ha arrecato alle nostre terre ed alle nostre genti.

Il Padula, dà lustro, struttura e forma all’esercizio prediletto e più praticato da ogni buon calabrese: il parlare male della Calabria e delle sue genti.

Il don Vincenzo infierisce sulla terra in cui è nato, sottolineandone ed ingigantendone le miserie, le storture e le brutture, attribuendone torti e meriti all’ambiente ed al costume indigeno: Peccato che in questo “lodevole” esercizio, tralasci di sottolineare od evidenziare che il tutto possa essere conseguenza ed effetto del succedersi di invasioni e guerre, circostanze che nel tempo hanno annientato una civiltà, distrutto un tessuto economico e depauperato un territorio e le sue genti.

Da appartenente alla “borghesia illuminata”, il Padula pare aver dimenticato quel che è stata la terra e la gente magnogreca, l’eredità di civiltà e cultura che tale periodo storico ha lasciato in eredità; tutto proteso a magnificare e lodare ogni aspetto legato alla conquista del sud da parte dei savoiardi, il “patriota” ha obliato anche il minimo merito di una regione e di un popolo dalla civiltà millenaria.

In questa occasione don Vincenzo non mi trova affatto d’accordo con quanto da lui sostenuto e scritto e sui rimedi che, secondo il suo vedere, apporterebbe l’imposizione dei dazi.

I tempi successivi alla sue tesi, hanno dimostrato che la gestione dei tributi è stata appannaggio della borghesia, classe sociale cui don Vincenzo apparteneva, la quale, con abusi, soprusi e ruberie, ha realizzato solo il proprio interesse e incrementato la propria ricchezza, trascurando il bene comune che poi era lo scopo primario della legge istitutiva dei dazi, così comeipotizzato e magnificato dall’ottocentesco nostro cronista e corregionale.

Di seguito ed in corsivo il testo del Padula, pubblicato sul Bruzio il 6 Aprile 1864:

Alcuni ragguardevoli cittadini, letto il nostro articolo sul Dazio-Consumo, ci han fatto osservare che a seguire le nostre proposte si aggraverebbe di troppo la condizione del nostro popolo, la quale già per stessa è bastantemente miserabile.

Noi rispondiamo che ciò che dicemmo intorno allo stato materiale dei nostri comuni è innegabile. In quanti di essi sono strade, non dico decenti, ma sicure?

D’inverno il fango ti arriva al ginocchio, di està la polvere ti accieca; di giorno se più di quattro uomini s’incontrano, bisogna che due si stringano con le spalle al muro e stiano colà ritti occupando il meno spazio possibile per dare il passo agli altri due, che vengono dal verso opposto; di notte bisogna star sull’avviso, incedere tentoni, poggiare una mano al muro, e girarsi l’altra d’attorno per non romperti il collo.

Poi chiassi e chiassuoli, poi immondezze infinite di porci, cani, galline, e di uomini, perché, stante l’assoluto difetto di latrine, il nostro popolo fa le sue occorrenze in strada, o le butta instrada.

Dovremo dire di più? Dovremo ricordare quanto l’aspetto sporco dei luoghi renda sporche l’abitudini, gl’istinti ed i pensieri degli abitanti?

La è questa una verità conosciuta non dai soli filosofi, ma dai poeti. La terra, diceva Tasso, simili a gli abitator produce; e quando sozzi sono i luoghi dove si vive, è impossibile a nascere la nettezza dell’abitudini, e quindi quella dei costumi, e quindi l’amore della virtù, perché virtù non è altro che amore di nettezza e di ordine.

La legge dell’equilibrio non si verifica nei soli fluidi, e nel calorico: si verifica pure nei nostri affetti e pensieri. L’uomo si equilibra con gli oggetti circostanti, or lieto, or mesto se quelli son lieti o mesti, e s’entra ben vestito, ben strebbiato in parte piena di polvere e di fango prova il bisogno di cangiar vestimenta, e coprirsi di cenci. O Calabria sporca! esclamano i nostri fratelli dell’alta Italia al primo venire tra noi, ed i nostri fratelli dell’alta Italia hanno ragione.

Bisogna dunque che il lurido aspetto dei nostri paesi sparisca, e se il libero governo ci scioglie le mani facciamo che il loro primo impiego sia quello di lavarci la faccia.

Noi gridiamo sempre ai sussidii; e sussidii il governo ne ha dato abbastanza; ma qualche cosa alla fine è mestieri che si faccia da noi.

Abbiamo sott’occhio il bilancio del Comune di Piacenza. quante spese, e quali spese! E come son bene impiegate, e come bene si è provveduto ai conforti che fan bella la vita sociale! E quelle spese sono tutte alimentate e sostenute a furia di dazii comunali.

Più nani fanno un gigante, più uomini un esercito, e più soldi una lira. Perché non fare il medesimo anche noi? Quale dei contadini nostri non pagherebbe volentieri il suo soldo, quando vegga che la sera il municipio gli risparmia la pena di accendere un pezzo di pino, e lo toglie alla necessità di chiudersi a casa nell’ora dei polli, e cercare e trovare il letto con l’aiuto del crepuscolo?

Direte: il nostro popolo è misero ed i dazii che imporrebbe il Comune sul l’ingresso o sulla vendita delle frutta, dei cereali, dell’uva, del mosto, degli animali, e va dicendo, lo aggraverebbero di troppo; e qui è l’errore. Il nostro popolo, buono per quanto povero, ha pagato, paga, e pagherà il dazio-consumo, e questo è un fatto; ma perché è buono ed ignorante lo paga, ma non al Comune.

Perlustrate tutti i nostri paesi, senza eccezione, e troverete all’ingresso di ciascuno tre uomini, i quali o hanno una cassetta in mano, o sospendono sulla via un paniero ad un palo. Non si chiamano agenti del tesoro, non si chiamano gabellieri; si chiamano eremiti, frati, e sagrestani; tutta la differenza è nel nome, ma nel fatto son gabellieri.

Le donne, che tornano dal contado, versano in quel paniere, che somiglia la botte delle Danaidi, ciascuna il suo pugno di castagne, di noci, o di altre frutta, che hanno raccolto. Questo non volete chiamarlo dazio d’introduzione? Chiamatelo a vostro senno, ma il dazio ci è.

Perlustrate le campagne nel tempo di Pasqua, della trebbiatura, della vendemmia, della fabbrica dell’olio, ed incontrerete la stessa bruma schiera di ſormiche, i sagrestani, i frati, e gli eremiti, che si prendono da ciascuna mandra l’agnello pasquale ed il cacio, da ciascuna aia il moggio di grano, di granone, di civaie e di patate, da ciascuna vigna l’otre del mosto, da ciascuno frantoio l’otre dell’olio. Questo neppure volete chiamarlo dazio-consumo? Chiamatelo a vostro senno, ma il dazio ci è.

Entrate nei paesi al tempo che le nostre belle e buone calabresi dopo un mese di sudori veggono finalmente i loro bachi chiusi nei bozzoli, ed i boschetti dei loro soffitti cambiati nel giardino dell’Esperidi, e carichi di frutti di oro; e voi vedrete la stessa bruna schiera svellere un ramicello da quei boschetti.

Allora tutti i Santi, tutte le Madonne scendono dal Paradiso, e cercano l’elemosina: allora i sagrestani ed i procuratori di tutte le Confraternite, i sagrestani di tutte le Chiese parrocchiali, gli eremiti di tutti i punti del Circondario gareggiano a chi meglio può mettere il piede nell’aureo giardino. Questo neppure volete chiamarlo dazio-consumo? Chiamatelo a vostro senno, ma il dazio ci è.

Tutto ciò mostra che vi hanno uomini del genere crittogama che s’impiantano e vivono sulle carni degli altri uomini, mostra che il nostro buono ed ignorante popolo ha pagato e paga il Dazio-con sumo, ma non lo paga al Comune.

Prima d’andare innanzi facciamo una protesta.

Poiché al ministro del Culto è paruto di lasciarci i monaci mendicanti, sieno i benedetti, ed i ben rimasti tra noi: han dritto a mendicare perché han dritto a vivere, ed hanno dritto a vivere perché servono il Comune, sia amministrando i Sacramenti, sia predicando la divina parola; ma noi chiediamo con qual dritto si permetta d’andare attorno ai frati di monasteri appartenenti ad altri Comuni, ai sagrestani e procuratori delle Confraternite, ai sagrestani delle Chiese parrocchiali, che attendandosi in una diruta Cappella assaliscono il passaggiero non col moschetto, ma col paternoster? La improba mendicità è condannata da tutti i codici, e questo nostro è il caso. Oh ! se i nostri Sindaci e delegati di polizia si ricordassero una volta d’essere energici !

Dopo questa scappata torniamo d’onde abbiamo preso le mosse. Il popolo dunque pagando col fatto la tassa del dazio-consumo, non si tratta più d’introdurla, ma di modificarne il metodo di riscossione, e lo scopo. Si tratta d’illuminarlo, di mostrargli il bene che si intende fargli, e chiedergli il suo concorso.

E l’incarico d’illuminare non appartiene ai soli preti, appartiene a tutti; appartiene a coloro che hanno, o possono, o debbono avere ingegno e cuore, appartiene insomma ai galantuomini. Son questi i padri, i tutori, i maestri del popolo; e il popolo è buono, è docile; e se dà in fallo talora, avviene non per malvaggità d’istinti, ma per ignoranza.

Esso paga, perché il povero è sempre più generoso del ricco; e paga volentieri, solo che vegga il frutto dei sacrificii che gli s’impongono. Ce ne appelliamo al fatto. Che cosa si è voluto dal popolo di Cosenza, e che il popolo di Cosenza abbia ricusato? Soscrizioni soprasoscrizioni, inviti sopra inviti, il popolo di Cosenza si è smunto, si è stretto; ma il pizzicagnolo, l’artigiano, il contadino, il mercantuzzo hanno aperto la borsa, e pagato. Quando poi ha perduto l’animo? Quando poi gli son cadute le braccia? Quando pagò per avere un teatro, e’l teatro restò sotterra. E questo è un esempio, ma altri mille non mancherebbero.

Noi dunque preghiamo i Sindaci di mettere ad effetto la legge sul Dazio-consumo. Non vogliono metterlo sulle carni e sulle bevande? Lo mettano sopr’ogni altro genere, assicurino al governo il minimo dei proventi, e dividano con esso la metà dell’eccedenza. In questo unico modo i Comuni potranno avere fondi sufficienti per abbellirsi, per migliorarsi, per ottenere tutte le commodità del vivere sociale.

Sappiamo bene che il difficile non sta nel trovare prontezza nel popolo, che deve pagare, ma sì bene onestà in chi deve riscuotere. Ebbene! queste umili e penose cariche di riscuotitori siano intraprese alacremente dalla classe ricca, e nobile. E ricca, e non ruba; è nobile, e sdegna di rubare. E se al gentiluomo calabrese parrà vergogna il diventare gabelliere, io gli ricordo il detto di Epaminonda. Il vincitore di Leuttra e Mantinea fu nominato, per creargli disdoro, ispettore delle chiaviche e delle fogne della città, e ‘l grand’uomo disse: È un impiego che puzza, ma io gli darò tale odore, che tutti ambiranno di ottenerlo.

Ottobre 2024​​​​

​​​​​​​MINÙCCIU

Permalink link a questo articolo: https://www.sandonatodininea-cs.it/2024/10/01/stuozzi-i-storia-u-dazziu-parte-seconda/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.