Luigi Bisignani
Ho ricevuto e come sempre ho un’immenso piacere a farvene parte e farvi passare un po di tempo con la storia paesana.
Minùcciu bbì cùntadi : Stuòzzi ì stòria
Questo studio, titolo originario “E’ successo un ‘48”, è estratto dal volume “Ninaja” pubblicato in Pistoia nel 2014 per i tipi Il Papyrus.
Negli anni 1647/48, il regno delle due Sicilie, fu al centro di moti popolari, contro la reggenza spagnola che, gravava i regnicoli, con imposte tributi e tasse, tali da aver ridotto alla fame, gli strati più bassi della popolazione ed impoverito anche talune di quelle classi sociali, che godevano di relativa agiatezza, tutti danneggiati da dazi e gabelle, su qualsiasi genere di prodotto. I più colpiti erano i prodotti destinati all’alimentazione, fra i quali la frutta, genere sul quale, la popolazione della capitale, campava in tutti i sensi, producendola commerciandola e mangiandola. Anche San Donato era gravato da tasse, tributi e gabelle di imposizione spagnola, come può meglio ricavarsi dal capitolo a questo argomento dedicato.
La rivolta, innescata dalle proteste e dalle azioni di rivolta, poste in essere, fra tanti, anche dal napoletano Tommaso Aniello (noto come “Maso Aniello” o Masaniello), divampò nell’estate del 1647 in Napoli, ebbe consenso, conquistò adepti ed incendiò l’intero regno, fino alle terre oltre il faro, in Sicilia.
Non voglio qui raccontare l’epopea di Masaniello. Focalizzerò l’attenzione ai fatti che, nell’estate del 1648, interessarono le terre e l’abitato di San Donato e non farò riferimento solo alle storie raccontate sull’argomento, dai nostri vecchi, ma a più fonti fra le quali una, autorevole sebbene di parte. Mi riferisco ai Diari di Francesco Capecelatro, nobile campano, che, in quel periodo, a fine dell’anno 1648, ebbe la ventura di essere nominato governatore della Calabria citra, l’attuale provincia di Cosenza e si presume che, per i suoi resoconti, abbia attinto, oltre che a documenti redatti all’epoca, anche a testimonianze dirette.
Il Capecelatro colloca la rivolta e l’omicidio del feudatario sandonatese nell’estate del 1648. Qualcosa però doveva essere successo anche l’anno prima se la data ed i contenuti del dispaccio del Residente (Ambasciatore) veneto a Napoli del 6 Agosto 1647. è esatta: ”E’ un periodo di grave malcontento per i sandonatesi, che in concomitanza e in conseguenza dei fatti successi nella capitale del Regno nel 1647, tumultuarono contro il loro signore, al quale tolsero ogni rispetto ed obbedienza mettendo fuoco ai suoi magazzini di grano, ammazzandogli tutte le mandrie dei vari animali, facendo prigioniera la Duchessa, con morte di due sue femmine e del fattore e con tanti altri eccessi di crudeltà.
Questa circostanza, unita alla memoria contenuta nel manoscritto di Domenico Martire, il quale estende i moti rivoltosi anche al 1649, ci fanno capire che le rivolte sandonatesi furono più di una e che il malcontento ed i torbidi che ne seguirono durarono ben oltre tre anni.
Il Capecelatro, a pp. 457 e seguenti, del volume terzo del Diario, annota:
“Ma in Calabria non essendo del tutto ancora compiute le miserabili tragedie del reame succedette gravissimo caso nella terra di San Donato posta fra gli asprissimi gioghi dell’Appennino, e da rustica e feroce gente abitata: perciocché essendosi come avevano fatte quasi tutte le altre terre della provincia, ribellata a D. Francesco Sanseverino suo Duca, e predatogli quattromila pecore ed altre robe, non curò dopo venuto il general perdono e stabilita la pubblica quiete, di gire come conveniva ai piedi del suo signore e dargli l’obbedienza e soddisfazione bisognevole in Roggiano ove il Duca albergava, che avutone perciò ricorso ai Ministri reali, s’inviò dal Marchese di Fuscaldo allora Viceré della Provincia l’Auditore don. Emmanuele Alvarez della Scalera con quaranta soldati della compagnia del battaglione di Cosenza, condotti dall’Alfiere di essa, e quaranta altri fra soldati di campagna ed altre persone di valore. Giunto colà l’Auditore formò contro quelli ostinati il processo, e ponendo in chiaro la loro ritrosia, avendo conchiuso in pubblico parlamento di persistere nell’usata ribellione, per essere venuta in Napoli l’armata Francese, ed avuto in suo potere prigione un tal Marco di Vuono caduto nel detto fallo, il fe impiccare per la gola e ritirossi dopo questo in Cosenza.
Ma cotal esempio piuttosto inasprì che intimorì il perverso animo di quella gente, come tosto ne mostrarono gli effetti, perciò essendo il Duca colà passato (1) di Roggiano, con buona mano dei suoi vassalli e familiari armati per riscuotere certa taglia che essi stessi si avevano imposta per soddisfare le pecore rubate, così avendolo concordato col lo stesso Auditore, e fattane pubblica scrittura, pentiti poi avevano negato pagarla, con opporsi eziandio le donne ai riscuotitori di essa e ad un Eletto e fattili strazzii e scherni e negato di gire a Roggiano il Sindaco chiamato dal suo Signore si risolvettero di ucciderlo secondo che eseguirono nel seguente modo.
Il mattino dunque delli 10 di Agosto avendo il Duca udita la messa, e ritornato ove albergava in casa di Francesco Antonio d’Arnone essendo stato il suo palagio rovinato nelle passate rivolture, mentre si stava ponendo all’ordine il pranzo, affacciatosi ad una finestra, gli furono tratte in un subito due archibugiate dalla casa di Romano Balzano, che colpitolo nel capo e nella gola tosto l’atterrarono; e respirando appena, chiestogli da don Francesco Antonio Mozzicaro; suo familiare, se voleva confessarsi, fatto il segno con la mano di si, mentre colui usciva a chiamare un prete per ciò fare, fu nell’uscire dalla porta dà quei forsennati con un’altra archibugiata ucciso. Nello stesso tempo si udì toccare la campana all’armi, e si vide sul campanile innalzato uno stendardo rosso, ed i cittadini tutti armati, chi di scoppii e chi di spade e chi di ogni altra sorte di arme sino a’bastoni, uscirono gridando: si uccida questo cane con i suoi birri di Roggiano ed altra mala gente che seco conduce, perché ora è il tempo opportuno, sendo giunta l’armata Francese, il perché non abbiamo timore di nessuno. Uscirono dalla casa del Balzano ove avevano il delitto commesso gli uccisori del Duca armati di scoppii, che furono Mercurio Panebianco, Francesco Giannuzzo, Francesco Panebianco ed altri molti, che circondata la casa ove il morto giaceva, volevano che si desse nelle loro mani Francesco Sanseverino cugino del Duca, e che per aver tenuta detta terra in affitto, era non men di lui odiato ed aborrito. Ma Mario Biancamano, familiare di Francesco disse di non essere colà il suo padrone, ma che se ne era fuggito in casa di un tal Marcone, onde tosto colà corsero per ucciderlo; e Francesco che era nello stesso albergo ove giaceva morto il Duca come vide coloro partiti, pregò affettuosamente il suo famigliare che gli avesse salvato la vita ponendolo in luogo sicuro, con cavarlo di la, il che ingannevolmente promettendogli colui, che l’ebbe cavato fuori, non furono guari dilungati da quel funesto luogo, non avendo voluto altri compagni a tradire il suo signore li trasse di dietro con slealtà barbara e crudele con un piccolo scoppio, e tosto gravemente ferito l’atterrò; al cui colpo corsi gli uccisori del Duca, con molte altre ferite il privarono affatto di vita, e condotto il suo cadavere ove era quello del Duca, riunirono anche col Mozzicaro, godendo di vederli giacere colà tutti morti, con fargli obbrobriosamente molti strazii. Ed acciocché la crudeltà non fosse senza rapina, saccheggiarono le vasellamenta di argento, molta seta, ed ogni altro arnese del Duca che colà era; né finendo con ciò la loro rabbia, uccisero due altri soldati del Duca, e tre altri gravemente ne ferirono Mercurio Palermo, Tolomeo Marzano e Marco Pagano, campando gli altri come meglio poterono con la fuga, uno dei quali fra pochi giorni si morì; e temendo poi non esser castigati delle commesse malvagità, persistere volendo nella cominciata rivoltura, cominciarono con trincee e ripari a munire la Terra da se stessa forte ed atta a far difesa, per esser posta in rilevato ed asprissimo sito.
Commosse tal cosa non solo il Marchese di Fuscaldo (2), ma ciascun Barone della Provincia, temendo non molti altri avessero preso ad imitare così cattivo esempio; il perché raunato grosso numero di persone, ne gio Roberto Dattolo Marchese di Santa Caterina esperto e valoroso soldato del Principe di Bonifati, ed altri Baroni e persone di stima sopra la Terra, ma quei ribelli non osando attendere la gente che gli venia sopra, con le loro donne e figlioli via si fuggirono, ricoverando per gli inaccessibili gioghi di quei monti, non rimanendo in San Donato sol che alcuni preti e certe poche donne vecchie. Entrò nella Terra un Muzio Rosso di Paola vassallo del Marchese, e bruciate alcune case, saccheggiò avaramente ciò che vi ritrovò, senza perdonarla neanche alle chiese, i cui sacri arredi anche si tolse, il perché ne fu poi scomunicato dal Vescono di San Marco, nella cui Diocesi la Terra è posta: ma tosto che di la fu la gente regia partita ritornarono què di San Donato e fortificatisi, di nuovo nella loro contumacia durarono, negando affatto l’obbedienza ai Ministri Reali, non facendo altro risentimento contro di loro il Marchese sin che da Cosenza si partì; nel quale stato di ribellione ritrovandoli io quando venni nel governo di detta Provincia, aspramente li afflissi e castigai, con forme al suo luogo racconterò” (3).
Il Capecelatro, assunse ufficialmente la carica di Governatore di Calabria citra, nel gennaio 1649 insediandosi in Cosenza. La situazione dell’ordine pubblico, era estremamente precaria e le rivolte, nei due anni precedenti, spesso contro il feudatario locale, avevano causato, sia danni materiali, puniti con impiccagioni, nonché i primi danni erariali, in quanto nessuno effettuava più i pagamenti fiscali.
Il Capecelatro, descrive con minuzia la situazione, Per quel che riguarda San Donato, annota. “La terra di San Donato che aveva poco innanzi ucciso il suo Duca; stava totalmente rubella, non volendo dare l’obbedienza ai Ministri del Re ed all’unica figliuola rimasta del Duca.” Descrive poi i mezzi forti, utilizzati nelle zone di Lungro e Rossano, ove si tumultuava contro il pagamento dei 42 carlini a fuoco. Per ripristinare l’autorità regia, il Capecelatro, non esitò a far impiccare sette dei rivoltosi catturati, condannandone altri a vogare in galera. Continua scrivendo: “Né solo questo frutto mi rese la severità colà usata, perché sparsasi la voce per la provincia che io era risoluto al castigo dei cattivi, e che voleva spianare la terra di San Donato, nei cui circonvicini luoghi aveva inviato ad albergare le due compagnie spagnole, e fattala assediare alla larga, sgomentati dalle mie minacce, senza aspettare altro assalto, tosto che ritornai in Cosenza, inviarono a rendermisi (4), scacciando fuori di essa trenta fuorgiudicati come principali uccisori del Duca, e mandando certa somma di moneta per principio di pagamento dei Fiscali al Tesoriere della provincia; il perché fattovi entrare la compagnia di don Alfonso Lignan con uno degli Auditori, la resi per allora quieta ed obbediente”.
Alla pp. 518 del diario in questione il Capecelatro scrive: “Intanto i ribelli usciti dalla terra di San Donato, rientrando di nuovo in essa la tolsero un’altra volta dall’obbedienza reale, non stimando né la loro padrona, alla quale ricusavano far riscuotere le rendite, ne niuno. Conoscendo dunque che erano indurati di cuore, e che bisognava applicarvi i più acerbi rimedii, v’inviai segretamente di notte tempo Giovan Pietro Mauro Luogotenente della Compagnia di campagna, con novanta eletti soldati la vigilia di Natale di Cristo, che entrati dentro la terra favoreggiati dall’oscurità della notte, ritrovando coloro senza guardia alcuna, lo che avevano sino allora con molta diligenza fatto, non immaginandosi che in tal tempo dovessero venire assaliti, ne uccisero buon numero dei più colpevoli, le cui teste recarono in Cosenza e ne ferono quaranta prigioni, dei quali per varii casi ne morirono altri venti dentro le carceri; ed avendo poi inviatovi nelle seguenti feste di Pasqua ed altre volte a fare il medesimo il Tenente e suoi soldati, che il sentire uomini di Corte, non osavano né anche uscire dalle loro case”.
L’uccisione del Duca di San Donato e di altre due persone più le conseguenti devastazioni poste in essere dai protagonisti della rivolta, costarono ai sandonatesi dell’epoca un prezzo altissimo in vite umane (impiccati, deportati, uccisi da maltrattamenti e stenti sia durante i trasferimenti presso le carceri, sia nelle navi-galere). Da quel che ha scritto il Capecelatro non deve essere stato facile ridurre a ragione i sandonatesi il cui paese doveva essere un quadro di desolazione e morte.
In questa storia, il popolino, fu la classe sociale che pagò il prezzo più alto. Gli umili ricoveri (capanne e pagghjari), dove la quasi totalità di loro dimorava, e le povere cose in essa custodite, furono spazzate via con molta più facilità delle case o dei palazzotti appartenenti ai “capipopolo” ed alle famiglie più note.
L’impossibilità di consultare i documenti della tragedia (non è conosciuto il luogo ove reperirli), purtroppo ha impedito una più approfondita ricerca ed una migliore consultazione di quegli atti, dai quali trarre ulteriori particolari, compresi tutti i nomi dei congiurati e, per ciascuno di essi, tramandare il tipo di sorte subita e la famiglia di appartenenza. Da un conto “all’ingrosso”, la vita del Duca e dei suoi familiari e le azioni di rivolta e danno, i sandonatesi l’hanno pagata molto cara, con circa 200 compaesani morti.
RICHIAMI DAL TESTO
(1) Il Duca immaginandosi che il terrore di tal castigo fosse stato bastevole a far restare quei perfidi in fede, ne gio il primo giorno di Agosto con don Francesco Sanseverino suo cugino ed alcuni altri suoi familiari armati in San Donato, per far riscuotere colà certa tassa impostasi da loro medesimi per trattato fatto da don Emmanuele per pagarla al Duca, in soddisfazione di molti suoi animali che si aveva presi, e per rifarsi alcuni altri danno da loro fattigli. E ritrovato ripugnanza nel pagamento, contrastatogli maliziosamente da alcune donne per non discoprirsi gli uomini, chiamò il Duca il Dottore don Giovanni Geronimo Sinicola Governatore delle sue terre, per pigliare di ciò informazioni; ed avendola presa, restarono inquisite di tal fatto da quaranta donne, come anche della inobbedienza che avevano mostrato quelli del governo in non volere gire da lui, chiamati in sua presenza, e parimenti di alcuni tali modi con colui che giva riscotendo in nome del Duca cotal tassa e con uno degli Eletti, il quale aveva sostenuto alcuni degli inquisiti, il perché què mali vassalli conchiusero di ribellarsi dal Duca ed ucciderlo.
(2) Pervenuta cotale sconcia novella al Marchese di Fuscaldo, v’inviò tosto un grosso numero di soldati il sopradetto Muzio Rosso, il quale trovando la Terra vuota di abitatori, per essersene tutti via fuggiti alla fama della sua venuta, non ritrovandovi che alcune poche donne vecchie in una chiesa e alcuni preti, pose a sacco le loro povere case, con tanta avidità che neanche perdonarono ai sagri arredi della chiesa; Il perché ne fu poi il Rosso scomunicato dal Vescovo di San Marco della cui Diocesi è San Donato; né altra vendetta si fece della morte del Duca durando nella loro ribellione que’ mali cittadini, e di vantaggio grosso numero di loro dichiarati ribelli e forgiudicati dal Tribunale della Udienza, unitisi con altri scherani della Provincia di Basilicata, con furti, taglie, ed altri gravi delitti l’una e l’altra provincia molestarono, saccheggiando fra gli altri danni che fecero, la ricca Certosa di Francavilla dei padri Cartusiani di San Brunone.
(3).documento XXIV in lingua spagnola, pp. 113 delle note al terzo volume dei diari. “… para hecar de aquui a los franceses, pues asi como superior la illegada a la Cava de las personas del Maestre de campo general Dionisio de Guzman, Luis Poderico, y Vicente Tutavila con el trozo de gente que brevemente se pudo juntar, y que iban con animo de combatti al enemigo, fue tanto la presa con que se ritiraron à embarcarse, que se dejaronn artilleria, municiones de todo genero, y algunos prisoneros, de que doy à V.S. la enhora buena, y espero darsela presto de que se haya vuelto la armada sin haber hecho mayor efecto en este regno. Tambien me alegro con VS de la rota que se ha dato a los bandidos en San Juan on Carico por la gente de Iulio Penzola, à quien tengo dadad ordenes asistan de Gaeta, Sessa y Sora, con que espero de acabara de perfeccionar, y que otra vez non se astreven a inquitarnos per quella parte. Dios guarde a VS my largos anos. Napoles 18 de agosto 1648”. Secondo usanza e consuetudini del tempo, i prigionieri colpevoli di delitti efferati (e l’uccisione del duca Sanseverino tale fu considerata, per via dello strazio e dell’accani-mento sui resti mortali) imbarcati sulle navi spagnole venivano torturati e giunti in mare aperto, gettati in acqua e li abbandonati. E questa fu la fine di quei sandonatesi trascinati via prigionieri e poi imbarcati su navidirette in Spagna, la cui sorte il Capecelatro s’era riservato di raccontare, quando asserisce “aspramente li afflissi e castigai, con forme al suo luogo racconterò”.
(4) la quale (terra) egli (il Capecelatro) con l’autorità datagliene dal Viceré ricevé in grazia, eccettuatine quaranta degli uccisori del Duca, i quali non passò un anno che li fe tutti, ancorché armassero per la campagna, in varie guise morire.
Ottobre 2021, MINÙCCIU