Luigi Bisignani
Quìri ch’addhèvanu animali (1)
Nel giornale Il Bruzio, ed in più edizioni, l’editore-direttore-cronista Vincenzo Padula fa una disamina dell’ambiente socio-economico-agro-pastorale nella provincia cosentina, tramandando così quel che era il quotidiano di una parte di popolazione di bassa condizione, che spesso mal conciliava il pranzo e la cena ed era costretta dallo stato di impossidenza ad accettare condizioni di lavoro e di vita oggi inimmaginabili.
Gli articoli riguardanti i mestieri di Bifolchi, Giumetieri, Pastori, Caprari e Vaccari sono stati pubblicati in due puntate. Oggi trattiamo della prima parte presente nell’edizione del 13 luglio 1864.
In corsivo il testo dell’articolo
””” Bifolchi, Giumetieri, Pastori, Caprari e Vaccari
Noi diciamo in Calabria jumentari e gualani a quelli che in Toscana si addimandano giumentieri e bifolchi; e, stante i ristretti termini in che l’industria equina è tra noi, pochi sono i giumentieri, ma più numerosi i bifolchi, e numerosissimi i pastori ed i vaccari.
Il bifolco entra al servizio del massaro e del massarotto a patto di avere all’anno dieci tomoli di frumentone, e due di grano, cinque lire al mese, ed un paio di zampitte o calandrelle.
È la calandrella una foggia di calzare, fatto d’un limbello di cuoio bovino concio in allume, cui si è tolto il carniccio, e si è lasciato il polo, e che messo sotto la pianta si lega sul dosso del piede con corde di lana, che dal loro incrociarsi si dicono crocili.
La calandrella lascia nudo il calcagno; ed ogni altra specie di scarpa gli tornerebbe, non che inutile, molesta; perché, atteso il vivere nomade di nostre bestie loccine, il bifolco, che non ha provvisioni di foraggi, non trova miglior partito di pasturarle che di arrampicarsi sugli alberi, e scapitozzarli.
Ed egli con l’ajuto delle calandrelle vi monta facilmente e passa da ramo a ramo, e sovente da albero ad albero: la quale abilità è veramente mirabile, ma torna a danno incalcolabile delle nostre selve, tra le quali il passaggio del bifolco è segnato da cadaveri. Tu trovi qui degli alberi altri sbacchiati e sbucciati, che miseramente abbiosciano, altri divettati ed impediti di venire innanzi, altri scoronati e sfronzati per intero.
Il bifolco non tocca vitto dal padrone; ma quando è mandato a lavorare per altrui, viene spesato da chi ne conduce l’opera.
Fra noi le greggi di capre e di pecore si danno a capo saldo, ma per lo più si associano. Ogni gregge si compone di 250 capi in su.
Diciamo massaru il mandriano, curatulu il cascinajo, furisi i pastori ed i caprari, e capuſurisi il vergaro. Diciamo anniglia la stroppella, sciamorta la sopranno, e pecora fatta la fattrice. Anniglia è vocabolo più bello di stroppella, e bisognerebbe introdurlo nel dizionario italiano; e del pari la cervella, la lastra, e la capra rispondono all’italiane capretta, toriccia e capra.
Quando il gregge si dà a soccio pretto, il padrone non spesa i pastori, ma dà loro il viatico (mmiata, inciata) da Pasqua alla festa di S. Pietro in fave, olio, sale e polenta.
Ma quando si dà, come diciam noi, metà a suolo, e metà a parte, il pastore riceve dal padrone da quattro a cinque tomoli di grano o frumentone, più o meno secondo i luoghi ed i patti, e cede a lui la metà di ciò che potrà spettargli dei frutti della mandria.
Son frutti della mandria l’agnellatura, il latticinio, la lana e lo stallatico. Al dì festivo di S. Pietro si fa la massa delle spese in erbaggio, in viatico, e nelle tre scarnascialate di Natale Carnovale e Pasqua, e, ristorate le spese, ciò che avanza del guadagno si divide in due parti, l’una delle quali cade al padrone, e l’altra al mandriano ed ai pastori, che se la compartiscono.
Il padrone però per ogni centinaio di stroppelle se ne preleva tre per carmaggio, e perdenza come diciam noi, per compenso, vale a dire, delle bestie che si smarrirono, o potevano smarrirsi, che furono divorate o poteano divorarsi dal lupo.
I caci si dividono a meta; ma le ricotte cedono tutte ai pastori, salvo il dritto al padrone di averne una mancia due volte la settimana, e quello del cascinajo di fare dal prezzo delle ricotte una tolta di 12 centesimi ad ogni cacio per spese d’insalamento.
I luoghi dove il bestiame si aggreggia di notte o nel cattivo tempo sono l’ovile (garazza, sgarazzu, curtaglia), la steccata ch’è una palizzata di canne, o sarmenti, o lentisco (interratu), e l’agghiaccio (mandrone). Lo stallatico vernotico che si fa nell’ovile, ed il primaverile in aprile e maggio appartiene al padrone: quello dello agghiaccio (notti e nuotti) si divide tra i pastori
L’ovile è un muricciuolo che corre parallelo ad una serie di stecconi confitti in terra, e che si curva a foggia d’un ferro di cavallo. Gli uni e l’altro sostengono il coperto, ch’è d’emibrici, e sovente di frasche. Il muricciuolo è di creta, spesso secco con sola incalcinatura, ed alto un quattro palmi.
L’agghiaccio non si cinge con funi, come usano in Toscana, ma con siepaglie mobili, che si portano da un punto ad un altro.
L’agghiaccio di cento pecore o capre si vende da 34 a 63 centesimi secondo i luoghi, e le stagioni; ed i padroni delle terre che si stabbiano, per avere maggior copia di pecorina, usano di lanciare in aria tizzi ardenti, che cadendo tra le tenebre sull’agghiaccio spaventano le pecore, che levansi in tumulto e fanno ciò che la paura suol produrre.
Le pecore si tosano tre volte all’anno, alla metà di marzo, a maggio ed a settembre.
La prima tosatura che si fa sopra i soli gropponi dell’animale ci dà la lana subeglia, parola a cui manca la corrispondente nel Vocabolario, le altre due la maggiatica e la settembrina.
I pastori però le tosano per sè sotto le cosce, e di quell’esipo, che filano, fanno crocili per le loro calandrelle, e suste (lope) per gli asinai.
Il bestiame boccino si compone di vitelluzze, vitelle, vitellazze, jenche, vacche, vua e tauri, che corrispondono alle parole italiane vitella mongana, lattonza, birracchio, giovenca, vacca, bue e toro.
Non si da a soccio; il frutto è tutto del proprietario, e ciascun vaccaro ha per anno la mercede di lire 101 e 97 cent., e ‘l capomandria (caporali), quella di 127 lire e 46 centesimi.
Non si chiude dentro stalle, ma in parchi scoverti ed emigra, al pari delle pecore e delle capre, dai monti al piano, e dal piano ai monti. Questa pastorizia nomade è rovinosa. Le nostre terre abbondano, è vero, di erbe spontanee, tra le quali il loglio, il trifoglio, l’erbe mediche, e svariate ragioni di avena, di cicorie, di meliloti, di asfodilli e di amaranti; ma la scarsezza delle piogge autunnali leva il vitto alla pecora.
Le cattive condizioni degli ovili e delle steccate, il difetto di buoni impatti, le fetide pozzanghere che ne fanno le veci, e le nevi e le serezzane delle lunghissime notti invernali intristiscono, ammorbano, uccidono le pecore, ne offendono il tessuto capillare, e di qui lane scarse, caprone, durissime al pettine.
Il boldrone della migliore delle nostre pecore pesa meno d’un chilogrammo; e quando si parla ai nostri di stalle speciali secondo le stagioni, ariose, allegre, asciutte, e ben coperte, eglino rispondono: A piecura dice: Trippa china e malu riciettu. A capra dice: Menza trippa e buonu riciettu.
Noi invidiamo loro la facoltà che hanno di conversare con le pecore e con le capre, e d’intenderne il linguaggio; ma pare che l’une e l’altre vogliano la pancia piena, ed il ricovero buono.
I nostri pastori sono ignoranti. Non separano in vasi diversi il latte munto nelle varie ore della giornata, per averne, secondo di più o meno di crema che contiene
Varie qualita di formaggi: ignorano il lattometro per misurare i gradi di calore richiesto dalla coagulazione; le forme che adoprano sono ſiscelle di giunchi, non, come dovrebbero essere, di legno o di coccio; e tutte queste cose unite ai pessimi gagli, alla sporchezza de vasi, alla luridezza degli abiti e delle mani, dei pastori, e alle putride esalazioni degli ovili mutano spesso il latte in vino ossiacetico, e ci danno caci cattivi.
Finché la pastorizia non si renderà fissa, finché ai pascoli naturali non saranno sostituiti gli artificiali, non avremo nè ovili decenti, nè cascine splendide, nè squisiti formaggi, nè agiatezza di pastori. Il frutto delle mandrie è poco; e il pastore ha solo quanto basta a soddisfare i primi bisogni della vita; e la seguente canzone popolare esprime il suo lamento:
Nu Juornu mi cridia d’essere papa,
E mi sugnu trovatu essari pupa.
Vajo nnavanti cumu va la rapa,
Pigliu pe appellicari e mi perrupu.
A cuntu propriu m’accattai na crapa,
Si la mangiaru cincucientu lupi,
Aju a trippa vacanti, e china a capu,
Supra u jumi aju u liettu, ed è nu scupu.
Il poverino dunque si fe pastore con la speranza di esser papa, e si trovò divenuto una pupa, ossia un bamboccio, che il padrone sbalza a suo capriccio ora dai monti alla marina, ora da la marina ai monti! Crebbe al pari della rapa, studio d’arrampicarsi sul colle della fortuna, e cadde. Si comprò una capra, intruppandola con quelle del padrone, e il lupo andò a mangiarsi giusto la sua!
Ha il ventre vuoto, e il capo pieno di rimproveri, e il suo letto? E il suo letto è una fascina, un mazzo di scope, su cui si corica per non bagnarsi mentre l’acqua piovana gli passa sotto! Su per giù questo è il dormire dei nostri pastori.
Al vederne uno, tutto solo nelle lande Silane, coverto da capo a piè di un vello, con due ciocche che gli scendono giù dietro l’orecchio, come i due bargigli che pendono sotto il mento dei becchi, e col pedo in mano, tu credi di esserti abbattuto in un antico Faune.
Quando il tempo si abbuia, quanto le piante sfrascano, quando il tendone dei nuvoli è rotto dai lampi egli conficca la scure ad un albero per farne un parafulmine, e si colloca in distanza.
Quando diluvia si ricovera sotto un frascato; se il frascato gli manca ficca il pedo a terra, vi sciorina sopra il manto e se ne fa un ombrello, si corica sopra una fascina di scope con la panettiera sotto la testa e dorme.
Quando il tempo schiara, egli o zampogna, o fila lana per farne crocili, o fa rocchette per regalarle alla sua bella; né si dimentica mai di incidere sul manico della rocca un pastorello, ed un cane. Questo modo solitario di vivere lo educa ai vizii proprii della solitudine, ed uno di questi è accennato dal torrum tuentibus hircis di Virgilio.
L’altro suo vizio è l’insensibilità di cuore: il mondo può rovinare, il pastore non se ne briga. Egli dice: Piecura nicura e piecura janca, Chi mori mori, e chi campa campa, il quale suo proverbio si traduce così: Muoia chi muore, viva chi vive: le pecore altre son nere, ed altre bianche, e gli uomini debbono essere quel che sono, gli uni felici, e gli altri no.
Il fatalismo è la religione del nostro pastore; nulla egli teme che il mal tempo ed il mese di marzo, ed intorno a ciò a delle opinioni singolari.
«Al giorno della candellaia, egli dice, esce il Leone dalla tana, e grida: Se nevica e se piove, quaranta giorni vi sono ancora; ma se Sole spande, tant’acqua getta». E più volte noi domandammo che cosa fosse codesto leone, e da che tana si affacciasse. E il pastore ci rispose: Vuoi sapere che sia il leone? Il leone è il leone, e ciò ch’ io dico è vero: s’oggi chè il dì della Candellaja fa neve o pioggia, gli è buon segno, ed avremo quaranta giorni d’inverno, e non piu.
Quando poi la sera il Sole tramontando dietro le nubi, queste si aprono ad un tratto facendo un foro luminoso, il pastore con la sua faccia di Satiro guarda il Cielo, e dice sorridendo: Domani avremo buon tempo, la Signora ha fatto il buco.
Quanto a marzo, egli dice con tutta la serietà: Marzo è figlio spurio, fece annegare la madre nel fiume; vinse quattro giorni ad Aprile, e rovinò il pecoraio che diceva: Tegno marzo al deretano; le pecore le ho tutte.
Non ne capisco nulla, dicemmo una volta ad un pastore; e il pastore ci rispose: Senti, padrone; ti dirò il fatto io. Marzo è mulo, ossia è figlio illegittimo, e quando nacque piangea con un occhio, e rideva con uno altro.
La madre se lo strinse al petto, e gridò: Marzullo, tu mi geli la mammella, e m’agghiacci il sangue. Mamma, rispose Marzullo, voltami verso l’altra mammella. Lamadre lo voltò, e gridò di nuovo: Marzullo, mi bruci e spiccatoselo dal petto lo adagiò nella culla. Perchè, gli disse poi, sei così cattivo, figlio mio? Io so, rispose Marzo, che tu mi hai generato di contrabbando, e non sarò quieto se non mi dici il nome di mio babbo.
Questo non si può, ripigliò la madre, e Marzo allora spinse dalla bocca una pochina di lingua facendo una smorfietta, e tosto i diavoli ballarono, e si levò una serezzana così acuta e così fredda che ti spiccava l’ugne dalle dita.
Marzullo, disse la mamma, fa, ti prego, che il tempo schiari; ho da imbucatare i tuoi pannicelli, e mi fa bisogno d’un bell’occhio di Sole per assolitarli. Va pure, rispose Marzo; penserò io. E fece un tempo così bello, che gli alberi mettettero, i fiori spuntarono sotto i piedi della madre. Ma tutto ad un tratto Marzo aggrondo: il cielo si turba, vien giù un subisso di pioggia e di gragnuola; il fiume si gonfia, e ne porta via la madre e il suo corbello coi panni.
Oh ! è ben cattivo codesto tuo Marzo.
Sì, cattivo assai, padrone mio, mi soggiunse il pastore; e n’è prova un pecoraio, di cui la felice memoria di tata mi raccontava che avendo detto: Ah ! mulo di Marzo, non ti curo più un corno: le mie pecore son tutte, e già siamo al trentuno »
Marzo si tenne offeso, uscì di casa e fu da Aprile. Fratello, gli disse, son venuto a trovarti: siamo di pasqua, sai? Vuoi fare ad arè busè? (zùcculu) – Facciamo; ma che si perde, e che si vince?
Tu hai, disse Marzo, trenta giorni; giuochiamone tre; se tu perdi resterai con ventisette, se perdo io te li darò l’anno venturo. Son contento, risponde Aprile. Si mette la lippa a terra; Aprile percuote con la mazza, e non coglie. Marzo, mulo ch’egli è, percuote, e la lippa vola a quaranta passi. Hai vinto, dice Aprile. Ho vinto, dice Marzo, e padrone dei primi tre giorni del fratello li carica di tanta neve, e di tante burrasche, che il pecoraio, il quale già si tenea sicuro del fatto suo, perdette tutte le pecore».
Queste favole che noi abbiamo raccolto dalla bocca del popolo, queste credenze ad una signora misteriosa che col roseo dito fa un buco nelle nuvole, ad un Leone vecchio, che come un vecchio Barbanera si affaccia dalla tana a far prognostici sul buono o reo tempo, a Marzo creduto mulo, che annega la madre, e vince il fratello accennano a tradizioni antiche, a poemi popolari perduti, ad idee pagane non ancora estinte tra noi, ed aprono ai nostri giovani studiosi una miniera inesausta e ancora intatta di ricerche interessanti, pregiate in Germania, in Francia, in Inghilterra, e da noi trascurate”””.
Il dialetto col quale viene raccontata la vita e la tradizione contadina, nelle terre cosentine di un secolo e mezzo addietro, seppur diverso dalla parlata sandonatese non impedisce di cogliere il significato nei racconti, nelle tradizioni e nelle credenze che erano comuni con quelle del nostro paese e m’è sembrato di ascoltare uno dei tanti racconti di vita vissuta dei nostri vecchi.
Giugno 2021
Minùcciu