Luigi Bisignani ……
Un ballo d’altri tempi…Luglio 1937
Estratto dal Numero 52 “Cronaca della Calabria” Del 2 settembre 1937 – XV
Un ballo d’altri tempi, che si ballava a San Donato di Ninea (Cosenza) : è il ballo cantato.
Non era di tutte le ore, di tutti i ritrovi; teneva il posto della quadriglia nelle serate di animate aristocratiche tarantelle, ed era tutto un inno alla bellezza, alla grazia della donna, all’affetto e alla pace serena.
Quel ballo e quel canto, del quale può dirsi scomparsa la tradizione, ha avuto quale ultimo maestro di sala un falegname suonatore di violino, M. Nicola Ceraso, ed io l’ho raccolto parecchi anni fa dall’allora non giovine
parente di costui, M. Ciccillo Ceraso, falegname anch’egli e suonatore di chitarra battente e di chitarrino.
La musica per il ballo era intonata da violino, chitarra o chitarrino e tamburello: era semplice armoniosa e niente rumorosa, per il modo che il canto del maestro risaltava chiaro, preciso.
Più coppie prendevano parte al ballo che il maestro comandava cantando col ritmo della tarantella suonata dai citati strumenti.
Pronte le coppie e iniziato il ballo, M. Nicola cantava:
IO CUMINCIU A LAVURARI,
UN ABBALLO DIVU CANTARI.
(o due o tre quante erano le coppie)
ABBALLATI UNESTI UNESTI,
MACCATURO PPI ‘NCAPU LI TESTI.
(ogni uomo porgeva un estremo di candido fazzoletto alla propria dama)
UNA VOTA, DUI VOTI E POI SI CESSA.
(tenendo teso il fazzoletto e sollevando le braccia che teso lo tenevano, sempre ballando, le coppie giravano in modo da passare il fazzoletto stesso due volte su le loro teste, dopo al che l’uomo lo rimetteva in tasca)
PIJA LU MACCATURU
E MINTIDDRILU ‘MMANU
CA QUISTU E’ USU BUONU:
CCU PATTU A RASSU STAI,
(a ogni cavaliere riprendeva il fazzoletto e, sempre ballando, ne porgeva un estremo alla propria dama, e, quando il maestro ripeteva:
ABBALLATI UNESTI UNESTI,
MACCATUTU PPI ‘NCAPU LI TESTI,
(le coppie alzavano le braccia impegnate e ripetevano il giro in modo da passare più volte il fazzoletto sopra le loro teste).
Quando poi il maestro cantava:
O DONNA MIA AMIRUSA,
(la donna della prima coppia, e poteva chiamarla anche di nome),
LASSA L’OMU E FA DUI GIRI,
CA PUA TI LU RITIRI
‘NNANTI SI NOBILI SIGNURI,
(l’uomo e le altre coppie si allontanavano e la donna chiamata rimaneva sola a ballare mentre il maestro cantava):
E CCHI CI PUORTI ‘NCAPU,?
CI PUORTI LA CURUNA,
E QUISTU E’ LU SIGNALI
CA SI FIGGHIA DI GRAN SIGNURI.
CCHI CI PUORTI ALLU NASU ?
CI PUORTI UNA ROSA.
OGNUNU CHI TI GUARDA
CI RIPOSA E CI RIPOSA.
CCHI CI PUORTI ALLA VUCCA ?
CI PUORTI LA DURCIZZI.
A OGNUNU CHI TI PARLA
CI LA DAI LA CUNTINTIZZI.
E CCHI CI PUORTI ‘MPIETTU ?
CI PUORTI LU JUOCU E SPASSU.
L’AMURI CCI VA SUGGIETTU.
IU, L’AMURU, NI STAJU DA RASSU,
NI STAJU DA RASSU.
E CCHI CI PUORTI ‘NCINTU ?
CI PUORTI LU GUARDANFANTI.
LI BILLIZZI A CIENTU A CIENTU.
UOCCHI NIVURI E JUCULANTI,
UOCCHI NIVURI E JUCULANTI.
E CCHI CI PUORTI ‘MMANU ?
CI PUORTI LA BANNERA
CCU LA STIDDRA RIALI.
OGNUNU CHI TI SCONTA SI DISPERA
E SI DISPERA.
CCHI CI PUORTI A LI PIEDI ?
CI PUORTI LI CHIANIERRI.
LI CHIANIERI SU BEN CAUZATI,
SI N’ALLEGRA LU TIRRINU
CHI DA TIA E’ CARPISATU.
L’ABBALLU DI LA PARMA
QUIST’ABBALLU MI PAR CA SIA.
TU SI LA GIOIA DI ST’ARMA,
QUIRA CHI AMA LU CORI MIA.
O GIOVINI, CCU DISTRIZZI
ESCI FORA E SPATTI LU PEDI,
E ‘NCRINATICCI BENI
(l’uomo tornava dalla sua dama alla quale faceva inchino e con lei ballava),
N’HAIU VIST’ABBALLARI
MA NON SIMILI CUMU VUI,
JATI GUALI GUALI
CUMU FIGGHI DI GRAN SIGNURI.
(ballavano la coppia, e quando il maestro cantava:
E TUTTI CCU DILETTU ABBALLIRETE,
(tutte le coppie si facevano innanzi e ballavano a formavano la gran ruota e il maestro incoraggiava il ballo ripetendo):
ABBALLATI ABBALLATI,
CHI ‘ON NBBALLA SIA SCURCIATU.
(il maestro cantava poi):
O DONNA MIA AMIRUSA,
(e poteva chiamarla anche di nome),
LASSA L’UOMU E FA DUI GIRI,
CA PUA TI LU RITIRI,
NNANTI SI NOBILI SIGNURI,
(e allora restava a ballare la dama della seconda coppia e tutti gli altri ballanti si discostavano.
Cantava il maestro le lodi come alla dama della prima coppia e talvolta improvvisava altre lodi, si ripeteva identicamente con le restanti coppie, e dopo cantate le lodi alla dama dell’ultima coppia, all’invito del maestro):
E TUTTI CCU DILETTU ABBALLIRETE,
(rientravano tutti nel ballo e formavano la gran ruota. Il maestro invitava uno dopo l’altro gli uomini a ritirarsi e unirsi agli altri spettatori, chiamandoli per nome con improvvisazioni spiritose, e la ruota si riduceva, e quando restava soltanto un cavaliere tra le dame, il maestro cantava);
O DONNE MIE AMIRUSE,
STATIVI AVVIRTENTI,
FACITIVI NU GIRU PRIPARATIVI OGNIDUNA.
(ognuna faceva un nodo ad uno estremo del proprio fazzoletto)
CUNTRA SU PAPPARUNI,
(tutte le donne disposte in giro, si adoperavano per mantenere l’uomo in mezzo a loro e lo percuotevano con i fazzoletti e lo accompagnavano al suo posto, sempre percuotendolo, fra gli applausi di tutti i presenti, i quali più fragorosamente applaudivano se l’uomo riusciva a liberarsi e a spingere in sua sostituzione un altro uomo fra le donne).
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Riassumo il ballo cantato in modo comprensibile per chi col vernacoliere sandonatese non ha dimestichezza.
Il maestro di sala, premesso che comincia a lavorare e che deve cantare tanti balli quante sono le coppie impegnate, invita le coppie stesse a ballare onestissimamente e a girare il fazzoletto sopra le teste una volta, due volte e poi non più.
Ma poiché l’uso del fazzoletto è uso buono, il maestro invita i cavalieri a riprendere ognuno il fazzoletto proprio e a porgerlo, a metterlo in mano alla propria dama, a patto però di starsi lontano da lei: “ccu pattu a rassu stai”.
E quando il maestro ripete: ballate unesti unesti, fazzoletti per sopra le teste, le coppie ripetono l’atto simpatico e affettuosamente espressivo.
Chiama poi il maestro la dma della prima coppia e le dice: o donna amorosa, resta sola a fare due giri, che poi ti riprendi il tuo cavaliere, “ti lu ritiri” innanzi a codesti nobili signori. E la donna resta sola in mezzo alla sala e balla, e il maestro canta:
Che cosa porti in testa? – Vi porti la corona, segno questo che sei figlia di gran signore.
Che cosa porti al naso? – Vi porti il delicato profumo della rosa. Ognuno che ti guarda gode come un senso di riposo che è vita e sentimento purissimo.
Che porti alla bocca? – Vi porti dolcezza che conquide incanta chiunque a cui tu parli.
Che rosa porti in petto? – Vi porti giuoco e spasso, allegria e sollievo, fonti di amore riserbato ad uno soltanto, e ogni altro “amaru” infelice, misero, sventurato, deve starsene lontano “da rassu”.
Che porti alla cintura? – Vi porti il guardinfante; le tue bellezze risaltano al cento per cento, o occhi neri, festanti, vivaci, che dicono, ragionano senza parlare.
Che porti in mano? – Vi porti la bandiera con la stella reale. Sei una trionfatrice; ognuno che t’incontra è preso di te, ma non può nutrire alcuna speranza, si dispera.
Che porti al piede? – Vi porti eleganti calzature che sono ben calzate: si rallegra il terreno che è calpestato da te.
Questo ballo a me pare che sia il ballo della palma, del trionfo e della pace serena. Tu sei la mia speranza, quella che il mio cuore ama.
O giovane, con destrezza, destrezzamente, fatti avanti e batti il piede e inchinati bne innanzi a codesta nobile dama.
Il cavaliere si fa innanzi, sì inchina e la coppia balla e il maestro canta: ne ho visto gente ballare, ma non similmente a voi che andate uguali uguali, ballate ugualmente bene, come figli di gran signori.
Canta poi il maestro: E tutti ballerete con diletto; ballate, ballate tutti; sia scorticato chi non balla. E tutte le coppie riprendono il ballo e fanno la gran ruota.
Il maestro con improvvisazioni spiritose e chiamandoli per nome, invita ad allontanarsi, uno dopo l’altro i cavalieri, e la ruota si riduce. E quando un solo cavaliere resta con le dame, il maestro canta: O donne amorose, state sull’avviso, continuate a ballare, ma preparatevi ognuna contro codesto spauracchio, e prendetelo a sergozzoni che sergozzoni non sono ma semplici colpi di fazzoletti ai quali, all’invito di stare sull’avviso e di prepararsi, le dame hanno fatto un nodo.
Noto la ripetizione “figli di gran signori” che pare voglia dire che i signori, ai quali il ballo cantato era riserbato più particolarmente, assommavano in se, in quei tempi, ogni bene; noto la forma pleonastica, “donna mia” e le poche altre forme che, come in tanti casi, singolarmente nei canti amorosi non vanno intese in senso letterale. E noto altresì: la corona in testa; la dolcezza che, parlando, consola; la gioia, l’allegria che si sprigiona dal petto sede dell’amore; gli occhi neri e “juculanti” che dicono tante cose all’anima senza parlare; la bandiera con l’emblema reale, simbolo del trionfo; l’allegria del terreno calpestato; tutto l’insieme che esalta la donna e rende il ballo cantato il ballo della palma: del trionfo e della pace serena.