Luigi Bisignani
Dopo un mesetto di vacanza il giornale riprende servizio, Sperando che avete passato tutti un bel mese di Ferie. Chi al paese e chi fuori.Sfortunatamente so che ci sono più paesani fuori che venuti al paese per le feste.
Riprendiamo ,con il nostro amico Minucciu che ci ha inviato un nuovissimo lavoretto nella categoria Stuòzzi ì stòria
A’ scòla. (parte prima)
Sulla fine degli anni ’70, per lavoro ho avuto modo di “frequentare ambienti milanesi” ed ho così avuto occasione di conoscerne le canzoni “popolari”, la più nota delle quali era dedicata al quartiere di “Porta romana”.
Negli ironici versi del canto popolare lombardo venivano citate tre realtà della vita che un uomo non dimentica mai (la mamma, la gioventù ed il primo amore), concetto col quale sono in totale accordo.
A questa reminiscenza aggiungo un ulteriore elemento, stavolta del tutto mio, cioè il primo giorno di scuola, avvenimento del quale ho perenne ricordo.
E’ da li, dal primo timido ingresso “ntà nù mènzanìli”, alla meno peggio adattato ad aula e dalla assegnazione del posto nei banchi fatto dalla maestra, che è iniziata una mia avventura, durata anni e che ancora oggi non ho concluso, visto che sono qui a scriverne. Molto tempo fa, avevo circa sei anni, ho iniziato la pratica dello scrivere col segnare, a matita, timide e malfatte “astine”, su righe e quadretti di quaderni con la copertina nera (chi ne ha ricordo?), “attività” proseguita poi con i primi sgorbi (nelle mie intenzioni dovevano raffigurare le lettere dell’alfabeto) ed in successione, con la composizione delle prima parole in una lingua tutta da imparare (quella italiana).
Del primo giorno di scuola rammento ancora le raccomandazioni sulla cura e custodia del primo libro “ch’èra custàtu quàttrucièntu lìri, quàntu nà jurnàta e mènza i fatìga ì nà fìmmina”.
Tenuto bene il manuale poteva essere ceduto ai prìmìni “ì l’ànnu dòpu” ed il prezzo era proporzionato al buono stato dell’usato. Allora un ciclo durava 5 anni e per il medesimo lasso di tale tempo i libri restavano gli stessi.
Per questioni di bilanci e risparmi, custodia e riguardo dei libri veniva raccomandata anche agli alunni di famiglie non abbienti, alle quali, i sussidi scolastici venivano distribuiti dal comune che ne restava proprietario.
La mia “classe di nascita”, definita in paese “ì fùrtunàti nàti àppèna dòppu dà guèrra”, ha sofferto poco l’analfabetismo e l’abbandono scolastico, circostanze che hanno colpito e talvolta duramente, gli appartenenti alle generazioni precedenti.
Appena in grado di leggere decentemente (per i più svegli a metà circa del secondo anno delle elementari) “ù piàcìri” più frequente che ci richiedevano persone anziane (spesso anche quelle di mezza età) era quello di leggere i contenuti di una lettera pervenuta da marito, figlio o altro parente lontano e scriverne la risposta.
E’ da questi ed altri consimili episodi che ho preso coscienza dell’analfabetismo, sebbene non diffuso fra i sandonatesi ricompresi nell’età dei nostri genitori (nati fra il 1920 ed il 1925), ma molto esteso nella generazione dei nonni (i miei erano del 1899 circa).
L’essere illetterati era caratteristico del ceto medio basso, specie fra la popolazione dedita al bracciantato, quella classe sociale dove “ù bìsuògnu” era più cogente ed il pur minimo apporto, proveniente del lavoro minorile, un certo sollievo lo procurava.
Questo era il principale motivo dell’abbandono scolastico e talvolta della mancata iscrizione a scuola.
Nel sentire comune però la frequenza di una scuola, per molti ragazzi dei secoli precedenti, era stata prerogativa dei figli appartenenti a famiglie delle classi sociali più “alte” (nobili, possidenti), mentre la quasi totalità dei figli del “popolo basso”, salvo rarissime eccezioni legate a casi di “intelligenze particolari” curate da organismi religiosi, il figlio del bracciante si “acculturava” frequentando il mondo del lavoro, quella scuola di vita normalmente “frequentata”, appresso a genitori od altri parenti (i più sfortunati da “furìsi”),
dove si veniva addestrati e si acquisivano tutte le nozioni pratiche necessarie a procurarsi del che vivere.
La trasmissione della “cultura”, come la intendiamo oggi, è iniziata millenni addietro, nel tempo in cui il “parlar quotidiano” è stato trasposto in “lingua scritta”.
Ciò è avvenuto in terre da noi lontane, in quelle zone cavallo fra Europa ed India e la “scrittura” a noi è pervenuta con le prime popolazioni di razza e lingua osca. All’epoca lo scrivere era un “rito” praticato dalla classe guerriero-sacerdotale e non era quotidiano, ma riservato a fatti ed avvenimenti molto importanti.
L’uso dello scrivere, così come noi lo impieghiamo ed intendiamo oggi, è stato portato sulle terre calabresi da coloni greci ed ampliato con la conquista romana.
Lo scrivere ha creato e s’è portato appresso, come è naturale che sia, anche coloro che ne avevano padronanza e potevano farlo conoscere e diffonderlo, i maestri.
E’ da queste circostanze che nasce la “scuola”, della quale cercheremo di ricostruire vicende e storia.
Prima di avventurarci sul “sentiero accidentato del sapere”, il cui primo passo è appunto la prima classe delle “elementari”, vorrei soffermarmi sulla situazione della scuola nel nostro paese. Per comodità mi aggancio al ricordo che ne ha lasciato il dr. Vincenzo Monaco, che di scuola se ne intendeva avendovi trascorso l’intera vita professionale, fra insegnamento e dirigenza.
Dopo aver citato le norme di legge sull’istruzione, sulle quali ci soffermeremo brevemente più avanti, il dr. Monaco ci dice che “nel 1878 San Donato aveva un solo maestro elementare, l’arciprete don Nicola Marini e la frequenza della scuola era riservata ai maschi; scuole femminili non ve ne erano. La prima maestra laica arrivò a San Donato nel 1880, chiamata dal barone Francesco Saverio Campolongo”.
Vi erano molti ostacoli a rallentare lo sviluppo della scuola pubblica (cito le difficoltà nel reclutamento dei maestri, nel reperimento di idonei locali e non ultime, quelle economiche, derivanti dai magri bilanci dei comuni).
Le conseguenze per la nostra popolazione furono che; “a San Donato il corso elementare completo venne istituito attorno al 1912, quando lo Stato, con una legge dell’anno precedente, avocò a se il servizio pubblico dell’istruzione elementare nei comuni non capoluogo di provincia, sottraendo così i maestri e la scuola alla dipendenza dai piccoli comuni”.
Nel decennio successivo, la scuola venne istituita anche nelle frazioni di campagna con la forma “pluriclasse” ed affidata ad un solo insegnante che teneva lezioni in locali di fortuna molto spesso umidi e privi di ogni requisito igienici.
Sottolinea il dr. Monaco; “San Donato ha offerto fino all’anno 1961 soltanto il corso degli studi elementari; per i licenziati di questo ordine di scuola era difficile proseguire gli sudi poiché gli istituti secondari più vicini erano quelli di Castrovillari, Cosenza, Salerno (San Sosti, nrd) e sostenere le spese di mantenimento di un figlio in un collegio o in una pensione era un lusso che si potevano permettere soltanto pochissime famiglie, e anche queste con tanti sacrifici e privazioni da parte di tutti i componenti la famiglia”
Chiusa momentaneamente la parentesi “paesana”, esamineremo storia ed evoluzione del ciclo delle scuole primarie, quelle “elementari” che tutti abbiamo frequentato e meglio conosciuto e lasciate le quali, ognuno ha poi imboccato la via che le possibilità economiche e la propensione della famiglia gli consentivano di percorrere.
Della scuola elementare cercheremo di sviscerare la storia e per farlo dovremo risalire a ritroso nel tempo, partendo dall’immediato dopoguerra (periodo in cui sono nato), per giungere ai primi modelli di istituzione scolastica ed ai primi schemi di istruzione elementare.
Naturalmente, quello che illustreremo, nel tempo, ha marginalmente toccato ed interessato il nostro paese in quanto piccola realtà locale, fuori dai “grandi giri”, con risorse scarse
quando non nulle e nei secoli generalmente “disinteressata” verso quel che riguarda e tocca istruzione e cultura e da ciò che ad esse è collegato.
La scuola dove mi sono formato era quella ideata dal filosofo Giovanni Gentile (ministro della P. I. fra il 1922-24), che previde l’obbligo di studio fino ai 14 anni d’età. Per la scuola elementare (frequentata da chi ne aveva diritto con iscrizione legata all’anno di nascita), il ciclo durava 5 anni (3+2), ed era uguale per tutti.
Per completarne l’iter bisognava superare due esami, al 3° ed al 5° anno. Il percorso successivo era la scuola media inferiore (con diversi indirizzi) cui seguiva la scuola media superiore ad indirizzo classico, scientifico, tecnico, magistrale, musicale.
La riforma Gentile era permeata di dottrine di ispirazione fascista per cui, alla fine della guerra, una commissione alleata venne incaricata di rivedere i programmi con la previsione di aperture pluriconfessionali (Gentile aveva dato riconoscimento alla sola religione cattolica).
Ai nuovi programmi furono subito contrari ambienti cattolici, tanto che la commissione venne affiancata da un rappresentante della chiesa, il cui ruolo nella società italiana, non poteva essere trascurato. I programmi risentirono di questi compromessi e furono di impostazione molto moderata, tanto che gli insegnanti non colsero mutamenti e continuarono a lavorare come prima.
Minùcciu
1 commento
BELLA RICOSTRUZIONE! Giustamente, stuozzi i storia.