Luigi Bisignani & Minucciu
A tìrantèddha e l’àti àbbàddhj
Per i giovani sandonatesi, vissuti a cavallo fra gli ultimi due secoli, ballare era un passatempo raro, generalmente praticato nel periodo di carnevale ed occasionalmente durante alcune feste, cito ad esempio il matrimonio. Non era attività “libera”, intesa nel senso che ognuno si poteva comportare come meglio credeva. Il ballo aveva le sue regole, alcune delle quali molto rigide.
Il riferimento è naturalmente a qualche decennio addietro, a quel periodo in cui gli strumenti musicali che fornivano il supporto necessario per il canto ed il ballo, erano “nù tàmmurièddhu” (tamburello, con e senza sonagliera), “nù càtarrìnu” (la chitarra battente a quattro corde), “à ciramèddha” (la cornamusa, ad una, due o tre canne), “l’àriganièttu” (generalmente un organetto a due ottave e otto bassi).
Non era facile essere un buon “àbbaddhatùru”. Occorreva essere leggeri di passo, agili nelle piroette e soprattutto nella “tìrandhèddha”, di riflessi pronti “ppì nnòn sì fà girà dà fìmmina”. Era un’arte che “sì ‘mparàvadi à nìnni, guàrdànnu ì grànni àbbaddhà” ed imitandone le movenze nel poco spazio concesso dagli angoli della stanza, là dove si veniva relegati vista l‘età.
Non farò riferimento al ballo organizzato dalla nobiltà od alta borghesia, ma prendo in esame e descrivo il ballo della gran parte dei sandonatesi, quella del ceto medio basso composto da braccianti, contadini, allevatori, artigiani e qualcuno dei massari, tutta gente che poi era la porzione più numerosa di popolazione e nella quale crescevano gli elementi umani più indispensabili per cerimonia, “ì sònatùri”.
Si ballava presso abitazioni private, la dove c’era o abbastanza spazio od una stanza libera, nella quale organizzare il tutto. La partecipazione era ad inviti, ma era usanza che, se si presentava alla porta un conoscente, raramente gli si rifiutava un ballo. Era buona educazione però presentarsi sobrio e limitare la permanenza ad uno o due giri di ballo.
L’invito al ballo era occasione si di festa ma, chi organizzava, metteva anche in conto di sfruttare l’ opportunità di “conoscere” meglio le giovani generazioni, specie quelle con l’età giusta (dai 16 anni in su), per un eventuale e di là da venire, “nzìtamièntu” (fidanzamento). Da qui la consuetudine dei giovanotti sandonatesi dell’epoca, di praticare il passaparola e del tenere d’occhio, durante il carnevale, ciò avveniva nelle case ove erano presenti ragazze in età da marito. Venivano osservate, in specie, tutte quelle attività che facevano presumere si stesse organizzando un ballo (pùlizzà mènzanìli, spustà mobìliu, ‘mprièstu i sèggi).
Organizzare un ballo non era cosa da poco. Al di la del “costo vivo”, sostenuto per alimenti e bevande (poca cosa per una famiglia che aveva disponibile un’abitazione abbastanza spaziosa e presupposto di un discreto stato di possidenza), c’era da allestire un locale con tutte le suppellettili (soprattutto sedie, molte in prestito), necessarie per almeno il triplo delle ragazze invitate, le quali, era usanza. fossero accompagnate dai genitori e talvolta anche dal fratello ed una sorella, naturalmente particolarmente graditi quelli non “zìti”.
C’era da ingaggiare i suonatori (da tre a cinque ed era usanza che venisse loro riconosciuto “pàga, spìzzicù e bivènna”) e “nù màstru àbbàddhu”, colui che, per pratica, autorevolezza e talvolta per forza fisica poteva ridurre all’obbedienza i più riottosi, intimorire “mriàchi o scùstumàti” e se delegato dal padrone di casa, regolare l’afflusso ed ammissione al ballo dei giovanotti non compresi fra gli invitati. Il compito più importante “dò màstru” era però il coordinare la successione dei balli e l’alternanza dei ballerini sulla “pista”. La “tìrantèddha” non creava grandi problemi, visto che la tipologia del ballo aveva necessità di spazio e quindi poteva essere praticata da una sola coppia per volta. Era “ù màstru” che insindacabilmente giudicava la durata di un ballo e comandava “ù tràsi e gjèssi”, ossia l’alternanza del singolo ballerino (maschio o femmina) che abbandonava la pista per favorire l’ingresso di un pari sesso, in modo che il ballo non avesse soluzione di continuità. Lo stesso maestro di ballo era delegato alla tutela della moralità, nel senso che doveva impedire qualsiasi atteggiamento o comportamento sconveniente e che la ragazza, durante il ballo, fosse fisicamente “tùccàta” e persino sfiorata “àra càmmisòla” (il vestito). Unico “contatto” tollerato e consentito era quello accidentale, che avveniva quando la donna riusciva “à gìrà u màsculu” e giocoforza veniva “tùccàta” coi gomiti del ballerino, ciò solo durante il tentativo di blocco che il maschio attuava per impedirle di completare il giro. Ciò era permesso perché, il “girare” un uomo durante “à tìrantèddha”, se era un vanto per la ragazza che riusciva a farlo, era altresì un discredito, ai limiti del disonore, per il maschietto che lo subiva.
Maggiori problemi “àru màstru” provenivano dai balli “moderni”, quelli che presero piede e si diffusero, anche fra i ceti popolari, nel periodo fra le due guerre. Parlo del tango, della polka e simili, i quali si aggiunsero al valzer, gia praticato dai sandonatesi delle classi più agiate. Il ballo a coppie richiedeva maggiore attenzione. Si doveva evitare che venisse praticato “àbbàddhu strìttu”, il contatto dei corpi,
situazione che le ragazze avevano imparato ad evitare, puntando i gomiti al petto del compagno durante il ballo. Occorreva scansare gli affollamenti eccessivi nella pista (occasione dei temuti “strìcamiènti” fra le coppie) ed attuare una giusta turnazione, in modo che tutti i presenti avessero occasione di partecipare al ballo.
Questa figura di coordinatore, doveva poi avere molto senso dell’umorismo per i commenti da fare nel corso dell’inevitabile “quadriglia”, quel particolare ballo che, ad un certo punto della festa, veniva richiesto dai partecipanti, perché era occasione di “contato fisico” ed ulteriore divertimento ed anche di scherno, per quelli che, durante l’esecuzione, rimanevano esclusi. Il meccanismo della quadriglia prevedeva che, suonatori e ballerini, eseguissero alla lettera le disposizioni del maestro, il quale, ad un certo punto comandava il cambio di ritmo e la divisione delle coppie. A tradimento, “ù màstru” interveniva nel ballo e la sua partecipazione sottraeva la disponibilità di una donna e causava l’esclusione di un maschio. Nel prosieguo il maestro rimaneva passivo ed il suo mancato intervento escludeva una femmina. Continuava così fino a che a ballare restava una sola coppia.
Molto contava essere nelle simpatie del maestro di ballo, specie se fra i partecipanti vi era qualcheduno, maschio o femmina verso cui si provava attrattiva. Era il maestro che, giostrando ed intervenendo al momento opportuno, poteva prolungare od interrompere un ballo e così favorire, o impedire, quelle forme di silente “comunicazione amorosa”, che etica e moralità dell’epoca consentivano.
Durante il ballo potevano capitare episodi di disturbo, quali l’ubriaco molesto, da neutralizzare; il giovanotto troppo intraprendente o sfacciato, da ridurre a più miti consigli; la piccola lite, originata dalla mancata ammissione al ballo di un non invitato o da conflitti personali pregressi o da gelosie nate sul momento; tutte circostanze, che potevano solo guastare il clima di festa e partecipazione e che, comunque, restavano episodici ed estranei alla generale tradizione dei buoni costumi sandonatesi
Febbraio 2015
Minùcciu