Luigi Bisignani
Minùcciu bbì cùntadi cùmu ghèramu
Braccianti parte seconda;
Questa seconda parte dell’inchiesta sulle condizioni dei braccianti calabresi, è stata pubblicata sul giornale Il Bruzio in data 6 luglio 186I.
In corsivo il testo.
“”””Uscita la stagione della semina, i nostri braccianti si adoprano in tutt’i modi per vivere. Altri pigiano le uve nei palmenti, e nei tini, altri corrono alle fungaie sul cadere delle prim acque, altri rassettano le castagne e calzati di zoccoli le sgusciano dopo che son secche nel metato, altri pigliano il mestiere del manovale o del carbonajo, altri fa panieri, o fusti per basti, o cerchi per botti, ed altri diventa fattojano, ossia trappetajo.
Non tutti però sono abili a queste sorti mestieri, nè ogni paese offre occasione di esercitarli; e pero il piu che altro non sa che trattare la zappa o la vanga emigra in lontane, contrade, e Sicilia ne riceve ogni anno nude, innumerevoli, e fameliche schiere. Nè siffatta emigrazione è altrove maggiore quanto nei comuni del Manco, con che danno dell’igiene e morale pubblica il vedremo in seguito.
Di tutti i lavori del bracciante prende parte la sua barca con trecento antenne. Due tizzi morti non ſanno fuoco, dice il loro proverbio, e se il marito è tizzo che arde, la moglie ne seconda le fiamme, e quando è diligente ed operosa massaja si dice che sostiene il naso sulla faccia del marito.
Che fa dunque costei? Per saperlo è d’uopo entrare in sua casa. La casa del bracciante è a terreno, non battuta, né ammattonata; riceve la luce dalla porta, e se ha finestra la è senza vetri o impannata.
Di fianco è il focolare privo di cappa e di camino, e ‘l fumo tinge le pareti, e costringe gl’inquilini a curvarsi. Di faccia è ‘l letto fatto d’un saccone, poche volte d’una materassa ripiena di capecchio, e fornito di due coverte.
Una caldaja, ed un calderotto di rame, una padella di ferro, un albio col mattarello, una madia con la rasiera e lo staccio, un bacioccole per pestarvi il sale, pochi canavacci, due o tre canestri, e panieri, una cannicciaper riporvi sopra o frutta, o pane o altro, un carruccioper tenervi il bimbo, una cassapanca vicino il focolare, un cassone con due sedie sopra, un trespolo per desinarvi, pochi scanni di ferola, un cofano, due o tre corbelli col cercine dentro, due o tre corde, due o tre stroppe e bilie, un crivello, una lucerna di creta, poche stoviglie risprangate con accia, una bombola di creta invetriata, due orciuoli, un bacile, un paio di sacchi, una bisaccia, una scala a piuoli per andare al soppalco (suſſitta o chiamcatu), un catino per rigovernare i piatti, un bicchiere, un pajuolo, una pentola, due o tre zucche per riporvi pepe e sale, uno ziro, due o tre terzeruole, una scodella di legno, una scure, una zappettina, una granata, una bugnola, e due o tre batacchi dietro la porta, e un gatto, un porcello, e poche galline formano tutta la masserizia e la ricchezza della nostra barca con trecento antenne.
Manca l’orinale e ‘l pitale; ma in Calabria l’occorrenzesi fanno innanzi la porta; le abitudini della nettezza non sono ancora parte di nostra educazione, e finanche in Cosenza non è raro il Signore che la sera prima d’andare a letto apra i balconi, ed orini sulla strada.
Faccia tinta, e trippa piena dice il nostro popolo; e quindi il bracciante si lava il viso la sola domenica quando si rade, e la sua donna quando va all’acqua.
Mentre l’orciuolo si riempie, ella si sciacqua la faccia, il collo, ed i piedi nudi ed inzaccherati ; poi guarda d’ attorno, solleva la gonna, piglia un gherone della camicia mostrando una gamba invidiabile alla signora, e si asciuga.
Memore del proverbio: A gallina chi cammina, si ricogli cu la vozza (gozzo) china, ella a primi bagliori antelucani armata di scure va in contado; fa una fascina, od un fastello, lo lega con la sua stroppa, se lo mette sul cercine e rientra in paese a venderlo cinque soldi.
Poi si piglia il barile, lo porta pieno d’acqua a chi ne la richiede, e guadagna un soldo; poi, se la signora la chiama, le abburatta la farina, le porta le tavole col pane al forno, e si busca una focaccia e tre pani; o vaglia il grano del proprietario, e le si da un morsello o di cacio o di lardone; o fa il bucato ad altra signora, ed ha 42 centesimi, una minestra di fave, e quattro pani di segala; poi, se le avanza tempo, fila, governa il porcello, e le galline, e si pettina.
Di costà coglie la foglia pei bigatti, ed ha cinque soldi a sacco; lavora nei campi, quando si sarchia, si miete, si trebbia, ed in tutte sorte lavori il salario della sua giornata è sempre 42 centesimi.
I marroneti sono vicini al domestico, e nel mese di ottobre ella rassetta le castagne; poi, se il marito glielo permette, emigra nei paesi maremmani, e loca l’opera sua a rassettare l’olive.
Affannandosi in questo modo ell’ajuta il marito, ed i due poveretti vivono; e per vedere come vivano bisogna vedere come mangino.
Memore del proverbio: A stati chiudi spini, ca u viernusi riventanu ngilli, ella secco al sole forza di zucche, di peperoni, e di bucce di poponi; raccolse l’ olive appena vajate e giù battute dal vento, i pomidori acerbi, i petronciani, i funghi, e li salò nelle sue terzeruole; e questi e le patate, e gli agli e le cipolle, e le uova della gallina sono tutti i loro cibi: cibi che sono spine, e non diventarono anguille.
Quando sono ricchissimi mangiano pane di segala, di frumentone, o inferrigno: finito il grano, mangiano il castagnaccio, o pane di orzo, o di una mistura di veccia, lupini, e fave. Vino non mai, se non quando l’hanno in dono; carne non mai, se non quando uccidono il porco, o per qualche lavoro estraordinario sentonsi somare in tasca una lira di più.
Allora i poveretti dicono: Chi vò gabbari u chianchieri, Cumprassi capu, trippa e piedi, e per frodare il beccajocomprano una busecchia col sangue, e spanciano e lupeggiano per un giorno.
Perché noi sorrisi dalla fortuna provassimo pietà per questa povera gente, ci bisogna vedere i nostri braccianti nell’ ora del beruzzo.
Per rinfrancare le forze si cavano di tasca un cantuccio dell’orribile pane, onde dicemmo pocanzi, e lo mangiano o scusso, o accompagnato da un peperone, o da un capo d’aglio!
E nondimeno tra tanta miseria il genio calabrese non si estingue: la poesia rovescia la sua luce sulla povera casacca, e la rattoppata guarnaccia, e composte dai braccianti nostri sono l’anonime canzoni popolari che ne descrivono lo stato.
Una di esse dice:
Un mi ni curu si giuvani iu muoru,
Ca lassu la mia bella accommudata:
Li lassu na gallina chi fa l’ova,
Nu gallu chi li fa la matinata;
Li lassu na farzata e dua lenzola,
Si ci cummoglia alla forti vernata:
Li lassu nu stuppiellu e piparuoli,
Si ci mangia lu pane quannu è stati.
Quanta pietosa ironia è in questa canzone! Il bracciante dunque muore contento, perché sa che, morto lui, la moglie rimane provveduta di tutto! E di che è provveduta? D’ una gallina, che le fa l’uovo, d’un gallo che la sveglia, d’una sola coverta per l’inverno, e di peperoni ardenti, coi quali, egli dice, la si rinfrescherà il sangue mangiandoli in esta col pane, e facendone una crescentina.
Quest’altra canzone è più seria, mettendo a confronto il povero col ricco:
Nasci lu riccu e buonu parentatu,
U povariellu de n’ affrittu lignu:
U riccu ad ugne tavula è mmitatu,
U povariellu nun ne fozi dignu:
U riccu, quannu ha debiti, è aspettatu,
U povariellu o carceratu, o pignu;
Mori lu riccu, e la cruci ha nnorata,
U povariellu ha na cruci de lignu.
Dopo tali canzoni dovrò aggiungere quella dei pidocchi? A questa, e consimili parole, molti nostri lettori che hanno il liberalismo, il galateo e la carità cristiana non nel cuore, prima nel naso, lo arricciano sdegnosamente.
Noi abbiamo altro gusto; noi con questi pazienti studiisulle condizioni del nostro popolo miriamo a ben altro scopo che a quello di soddisfare un’ inutile curiosità.
Noi vogliamo che la classe culta ed agiata guardi il popolo nostro composto tutto di braccianti proletarii, nati da un legno afflitto, respinti dalla tavola dei beni sociali, costretti a garentire la lira, che si mutuano, o col pegno della zappa, o col sacrificio della loro libertà; e solleviamo arditamente il lurido e fetido panno, che ne copre le piaghe, per far cessare le prepotenze, per far sparire le barriere che un orgoglio feudale ha messo tra i galantuomini ed il popolo, e per dir loro: Educhiamolo. Ah ! e che cosa è dunque un popolo, ch’è capace di comporre, di cantare, di udire ridendo la seguente canzone?
Nu juornu li piducchi feru festa,
Mi jianu pe li spalli cumu muschi:
Ed io jia pe porti e pe finestri,
Nu quaderuotto pe trovari mbrustu.
I pidocchi dunque festeggiano e fan galloria sulle carni abbronzate del nostro popolo, che non ebbe mai nè due calzoni, né due camice, e che per nettarsi degl’insetti, che lo succiano, si presta una caldaia, e vi mette a bollire i suoi panni!
Nu quaderuottu nun puotti trovari,
E jivi a mi circari a nu valluni:
A schere a schere cientu a lu collaru
E quattrucientu jianu allu juppumi.
Unu ci n’ era, ch’ era palummaru,
Temia li corna cumu nu muntuni:
lu jivi – amaru iu! – pe l’ammazzari,
E mi dezi allu piettn nu muttuni.
Cadivi nterra, e cursi alli gridati
U capitanu de lu battagliuni:
Ni fuoziru tricientu fucilati, –
E l’ àvutri si misiru nprigiuni.
Tra i mille imitatori del Berni non mancò chi trattasse in buono italiano il medesimo argomento; ma il nostro bracciante poeta è rimasto insuperabile.
E grazioso quel suo andare a spollinarsi in un vallone; è bella l’iperbole d’un pidocchio armato con le corna d’un ariete che combatte col misero contadino, e lo manda a gambe levate per aria con dargli una capata sul petto.
E l’arrivo del Capitano che mette in ginocchio quei pidocchi come altrettanti briganti, e grida al suo battaglione: Fuoco! e aumenta la bellezza dell’iperbole.
Ma noi domandiamo: Un popolo pari al nostro, che conosce d’essere povero, imbrutito, lordo, sporco, ignorante, e ne ride, non merita pietà da noi? Non è degno che ci occupiamo di educarlo, di migliorarlo, di fargli nascere in petto il sentimento della dignità umana? Esso attualmente non è uomo, ma un’appendice dell’animale. Lavora per mangiare, mangia per aver forza a lavorare, poi dorme: ecco tutta la sua vita.
Sente i bisogni dell’intelligenza? No. Sente quelli del cuore? Neppure. E pensare che dopo una vita intera vissuta a stecchetto egli parte dal mondo senza aver conosciuto né il mondo né Dio, né le meraviglie del mondo e di Dio, è cosa che stringe il cuore. E stringe il cuore il vedere tutta la felicita d’un uomo attaccata ad un capo d’aglio, e quella d’una donna al possesso d’una gallina! Quando questa vien rubata, se ne piange la perdita per tre giorni.
La nostra barca con trecento antenne è invasata da trecento furie, e facendosi all’uscio comincia a gridare: “Possano le penne della gallina mia nascere in faccia di chi la rubò ! Altro non gli lasci Dio nella casa che la povera gallina mia! Io me l’avea cresciuta come una figlia con le molliche del pane, ed ella mi venia appresso come una cristiana. Mille sventure colgano chi mi tolse gli alimenti dalla bocca!
Io ne cangiava le uova alla taverna or con olio, ed ora con sale, ed ero ricca. Si chiuda come il baco nel bozzolo chi chiuse in sua casa la gallina mia! O male vicine, datele la libertà. Dio sterri la famiglia, che ha rubato la gallina mia: non ci resti altro di vivo che una gatta nera, che gridi Minà. Possano nell’ impeto del dolore raschiarsi il volto con lo scardasso! Possano dibattersi come trote inebbriate dal tasso, come fanno ch’ io ora mi dibatta, e vada su e giù. O male vicine, liberate la mia gallina”.
Ponete in versi questi lamenti, non inventati certo da noi, ma presi dal vero, ma uditi mille volte, e farete una poesia che manca a Teocrito, a Virgilio ed a Gesner.
La poesia è sorella della miseria, ed entrambe si trovano nel nostro popolo. Bisogna che l’una resti, e l’altra sparisca; e dei compensi da ciò terremo discorso nel numero venturo.”””
Gennaio 2025
Minùcciu