I braccianti. (parte prima)

Luigi Bisignani 

San Donato di Ninea 13-11-2024

Minùcciu bbù cùnta cùmu ghèramu:

Nel giornale  Il Bruzio pubblicato il 2 luglio 1864, Vincenzo Padula descrive la condizione economica e sociale di quel ceto che, nel consorzio umano calabrese e non solo, occupava il gradino più basso della scala sociale. L’autore in questo resoconto ci da notizie dei nullatenenti, di coloro che risultando impossidenti e per campare dovevano fidare nella sola forza fisica e nell’essere “dèstri”, capaci di adoperare le braccia, in qualsiasi tipologia di lavoro o servizio venisserorichiesti; parlànnu àra paisàna, raggiunàvadi  ì quìri chi purtàvanu ù pàni àra càsa, jènnu a fatigà àra jurnàta.

Don Vincenzo ne descrive le misere abitazioni, la vita grama, l’alimentazione povera e non sempre giornaliera, le condizioni capestro alle quali erano soggetti per poter campare, la perenne situazione debitoria, ma anche i rari momenti di felicità e l’amara ironia, che da sempre contraddistingue il popolano calabrese, con la quale le vicissitudini personali e le condizioni di vita venivano rese di pubblica ragione.

Nel complesso, il racconto del Padula, riflette il quotidiano delle terre della provincia cosentina che, per tipologia e vicissitudini, non si discosta molto da quello che era il vivere quotidiano nelle terre sandonatesi, circostanza e condizione che ì nostri vecchi hanno tramandato nelle loro “parmarìe”, quei racconti che quotidianamente hanno accompagnato il percorso di crescita dei “quatràri” della mia generazione.

Per una migliore lettura, ho diviso in due parti il lungo resoconto del Padula e per non alterare l’anticagrazia, non ho tolto, modificato od apportato correzioni, lasciando il testo così come pervenuto, comprensivo dei termini che si richiamano il parlato cosentino del tempo.

Segue in corsivo il testo del Padula.

“”””La classe più numerosa e più miserabile è quella dei braccianti. Fino ad otto anni il fanciullo calabrese va dietro all’asino, alla pecora, ed alla troja; a nove anni il padre gli pone in mano la zappa, e la pala, in ispalla la corba, lo conduce seco al lavoro, e lo mette in condizione di guadagnarsi 42 centesimi al giorno.

A quindici il suo salario cresce, e ne ha 67; a venti non tratta più la zappettina, ma la grossa zappa, e con rompersi l’arco della schiena da mane a sera ha 85 centesimi e la minestra, o 125 senza minestra.

Allora si sente di esser vero bracciante, e, per scemare o raddoppiare la sua miseria, prende moglie. E la prende, perché il padre dice: Ad agusto fora ſora, nun vuogliusèntari chiù suspiri. È finito in agosto il ricolto, il bracciante ha una piccola provvisione di grano che gli dà il padre, e prende moglie.

La nostra contadina in aprile sogna fiori, in maggio amori, e matrimonii in agosto. E si fa il matrimonio, e ‘l bracciante è contento, perché in Calabria per dormire a letto bisogna essere marito.

Fino a due anni dormi nel misero letto dove fu concepito: nacque il secondo fratello, ed egli fu respintonella parte inferiore; nacque il terzo, ed egli usci dal letto e dormì sopra il cassone; nacque il quarto, ed ei cadde giù dal cassone, e si trovò a dormire sul focolare.

Poi crebbe; e d’inverno passò la notte nel pagliereaccanto all’asino, d’està prese sonno sulla via allo scoverto, e, se avea un’innamorata, andò a dormire sullo scaglione della sua porta, o sul ballatoio della sua scala.

Recita un vecchio canto amoroso:

Tutta stanotti a na scala ho dormutu;

L’acqua e lu vientu mi c’ha perramatu;

Ma u vientu mi paria lu tua salutu,

E l’acqua mi paria acqua rosata.

Perramare significa perticare, abbacchiare: e ‘lpoverino era flagellato dall’acqua e dal vento; e nondimeno quel misero ha tanta gentilezza di cuore, e bellezza di fantasia, che il buffo del vento gli pare il saluto della sua bella, ed acqua di rose la pioggia.

Ma agosto è venuto; egli si mette una piuma di pavone al cappello, e prende moglie; e l’idea della moglie va associata con quella del letto, del letto che gli sembra un trono. E come potrebbe immaginare l’una senza l’altro?

Nella Calabria nostra la povera donna del popolo per maritarsi deve avere un letto, che spesso è l’unica sua dote; e ‘l nostro bracciante che fino a venti anni si ha ammaccato le carni sulle pietre della via, vede quel letto e canta:

Intra su liettu e ricamati panni

Ci sta na varca cu tricientu ntinni!

E na figliola di quattordici anni,

Calata da lu cielu nterra vinni.

Sia beneditta chi ti fozi mamma,

E beneditta chi ti devi minna,

Nun ni guardari cu d’uocchi tiranni!

Spogliati, bella mia, e iamuninni.

E la bella, che si spoglia, a lui sembra una barca con trecento antenne. Che immagine graziosa! Il poeta aristocratico, ed ignaro della vita paragona una bella donna alla farfalla variopinta, alla tortorella che geme, alla pallida luna che viaggia, alla rosa ricca di mimioche pompeggia nel prato; ma il nostro bracciante ha miglior gusto, non ha che farsene di farfalle, di rose, di luna; e vuole una barca con trecento antenne, una donna dal collo corto, dalle spalle larghe, daifianchi arditi, dai polsi di acciaio, vigile, diligente, infatigabile massaja; e siffatta donna si chiama barca tra noi, barca che porta grano e ricchezza, barca con la quale il povero uomo spera solcare lieto le onde tempestose della vita.

O venti, spirategli propizii ! Ei benedice a colei che le die la poppa (minna), e si mette in cammino! Che ne avverrà? O lettori, e lettrici, cui fortuna sorrise, lasciatedi contemplare le piaghe d’un Cristo di legno: io vi predico la vera religione, e vi mostro un Cristo di carne, il bracciante.

Non in tutti i comuni il bracciante trova un terreno comunale da coltivare; se lo trova, non rinviene un monte frumentario che gli mutui la semente; se il monte frumentario vi è, non ha un signore che lo garentisca; e se vince questi ostacoli, se a forza di pazienza e d’industria è giunto ad ottenere un pezzo di terreno comunale, gli uccelli grifoni (chè così i galantuomini usurpatori si chiamano tra noi) quanto tempo credete che lo lascino tranquillo?

La poesia popolare è il sublime genito del popolo, il grido che lascia dietro a questo torbido torrente senza nome, che scorre per un alveo interrotto da sassi; e la poesia popolare dice cosi:

Nun appi sciorta de dormiri a liettu,

mancu de mi fari nu pagliaru:

Mi ni fici unu mpedi a nu ruviettu

Jiètturu i genti boni, e m’u sciollaru.

Pe lu munnu li via possano jiri dimierti

Cumu fo jiri a mia senza pagliaru !

Il poverino dunque che non ebbe sorte di dormire in un letto e di possedere una capanna, se ne avea costruito finalmente una a piè d’un rovo, come fa la lucertola, come usa la capinera di formarsi il suo nido; ma quel terreno era buono, fece gola alla gente buona, cioè al galantuomo, e ‘l galantuomo mando i suoi guardiani armati fino ai denti, che demolirono la capanna! L’infelice non si scorò; scelse il terreno più sfruttato, piùinutile, una grillaja, un renacchio insomma; ma anche quel luogo gli fu invidiato.

Amaru iu! duvi simminai!

A nu rimacchiu nmienzu a dua valluni.

Simminai ranu, e ricoglietti guai,

All’aria riventaru zampagliuni.

Vinni nu riccu si l’accattari,

Pe dinari mi detti sicuzzuni.

Jivi alla curti pe m esaminari,

U Capitanu mi misi mprigiuni.

Jivi a lu liettu pe mi riposari,

Cadietti e scanacciavi li picciumi.

Jivi allu fuocu m’i cucinari,

A gatta mi pisciatti li carbuni.

Questa canzone vale quanto l’Iliade di Omero. È la storia lacrimevole del popolo Calabrese, e si prova all’udirla cantare dal contadino, quando tra un verso ed un altro fa pausa con un cruccioso colpo di zappa, una compassione profonda.

Egli dunque semino in un renacchio collocato tra due torrenti; seminò grano, e ‘l suo raccolto fu di dolori.

Gli zampagliuni sono, ora i grilli di lunghe zampe, ora le mosche cavalline; e ‘l suo frumento battute sull’ajadiventò uno sciame di mosche e volo; perchè i creditori non gli diedero tempo di portarselo a casa, ma gli furono sopra sull’aia medesima, e glielo sequestrarono.

Il misero penso di vendere quel renacchio ad un ricco signore; e costui, invece di denaro, gli diede sicuzzuni: parola che risponde a capello al toscano sergozzone, perché pare che in tutti i punti del globo i sergozzoni siano fatti pel contadino. Spogliato e giuntato se ne richiamò col Giudice e per tutta giustizia il Capitano lo manda in prigione. Quale scoramento non entra allora nel cuore del malarrivato!

Nulla gli riesce, nulla crede che gli possa riuscire; trova inciampi per tutto, anche nel letto, ne casca giù, eschiaccia (scamaccia) i piccioni, che vi si educano sotto.

L’ ultima strofe ha una grazia indefinibile, la grazia del riso tra le lacrime, la grazia dell’uomo che la baja a stesso ed alla fortuna. Accende il fuoco, vuolearrostirsi il piccione; ma un tristo destino veglia ai suoi danni, e ‘l gatto orina sulle braci, e gliele spegne.

I suoi proverbii sono informati da mestizia profonda:

Sugnu furtunatu cumu l’erba d’a via !

U disignu d’u povaru u vientu u mina !

Tutti i petri s’arruzzuolanu alli piedi mia !

U vo’ ha da moriri cu la lingua grossa!

Egli dunque non è uomo, ma un’erba che cresce sulla via; chi passa la calpesta! Fa mille disegni, ma un soffio di vento glieli disperde, e l’avvenire resta chiuso per lui!

Nel cammino della vita chi lo precede e chi lo segue smuovono le pietre, e queste rotolando non feriscono altri piedi che i suoi! La società con tutte le classi piùelevate gravita su di lui, ed egli bue, egli fratello del bue, condannato a continuo lavoro, non può neppure lagnarsene, ma deve come il bue (vo’) morire per ingrossamento di lingua! Non è trista siffatta condizione?

Eppure il detto è poco. Il nostro bracciante è rimasto senza terreni comunali; che ha da fare per vivere?

Locare le sue braccia: e noi, che amammo sempre la conversazione dei poveri e degli infelici, restammo commossi tutte le volte che stendendole e facendo spallucce ci disse, (come è solito di dire): Non abbiamo che queste! Bastassero almeno a farlo vivere!

Ma ciò è impossibile. Il suo salario, il dicemmo, è una miseria, ed il lavoro campestre non è continuo tra noi, ma periodico e due volte all’anno.

Stante i meschini termini in che si trova l’agricoltura, si sconosce il seminatore, lo scotennatojo, la marra, ed il bidente. S’ignora il mazzuolo per schiacciare le zolle, il cilindro per comprimere le sementi, l’erpice per appianare i solchi, ed i varii istromenti per innestare ad occhio, a scudo, a scappo.

Uniche armi sue sono il digitale, la falce e la forca quando miete, la zappa la vanga e la scure quando semina. La zappa a piccone (pìnnolo), la gruccia per ficcare i magliuoli nel divelto, e la pala per lo sterro sono del proprietario, che adopera il bracciante.

poi tutti i braccianti sono buoni a questi semplicissimi lavori campestri: non tutti sanno trattare il pennato e potare le viti, non tutti concare le viti per propagginarle, non tutti l’arte dello innesto.

Zappare per seminare, potare e schiarire gli alberi, cavare formelle per piantarvi gelsi, fichi ed olivi, ed i lavori, che in paesi più culti si fanno dai giumenti e dai carretti, son tutte le occupazioni dei nostri braccianti.

Fossero almeno continue. Grazie alle fatiche dell’està, la sua piccola casetta ha in agosto qualche bene di Dio; ma il proverbio suo dice:

Agustu porta littari,

Settembri si li leie:

Viestiti, nculu nudu,

Ca viernu priestu vene.

Agosto divenuto corriere porta lettere a settembre.

Il signor settembre sgombrasi la fronte, per veder meglio, dalla corona dei pampini che lo adombrano, legge le lettere, e vi trova scritto: O povero bracciante,che hai le natiche nude, pensa a vestirti, perché l’inverno è vicino.

E ‘l poveretto vende parte del grano riposto, e si veste, e guarda fidente il futuro. Mohimè! Finu a Natali friddu, fami: E Natali avanti tremanu l’infanti.

Questo proverbio dipinge lo stato del popolo nostro: con le provvisioni accumolate in està egli vive fino ai 25 di decembre, e d’ind’in poi? E d’indin poi, il freddo, la fame, la miseria, la malattia, la disperazione ne porta metà all’altro mondo.

Il bracciante guardasi le braccia divenute inutili, la neve che gli cade sul letto e lo chiude in casa, il focolare senza un tizzo che lo riscaldi, e fa debiti sopra debiti, e la sua preghiera è che Dio gli faccia vedere aprile.

I proverbii: È juruta a frasca; nun avinu chiù paura, e A primavera u Signuri spanni la tavula sono commoventi.

O tragicommedia della vita! Il fiorellino che spuntaparla due linguaggi; al ricco dice: Amai al povero dice: Mangia!

E ‘l bracciante riprende la zappa, e torna ai campi; ma questa volta non più lavora allegramente, perché sa chetutti i suoi guadagni della bella stagione non bastano a pagare i debiti da lui contratti nella brutta. Una canzone popolare dipinge il suo stato, ed è mirabile:

Iu chiangu, amaru io

l quant aiu de dori;

Nu mi resta nu filu de capilli,

Infelice! per pagar dunque i suoi debiti dovrà privarsi di tutto, e rimanersi senza un filo di capelli?

Nun puozzu cu la genti pratticari;

Ugnunu chi mi sconta: Avissi chilli?

Che pittura vera! Egli non può bazzicare liberamente come prima; e chi lo incontra strofina il pollice sull’indice e gli dice: hai tu quel denaro che mi devi?

Quel chilli senza sostantivo, quella domanda senza un mi dice, che lo preceda, son due eleganze stupende, che non s’imparano certo sul vocabolario, ma sulla bocca del popolo.

Mi vuotu cu nu buonu parrari:

Oji li dugnu a tia, dumani a chillu.

Io mi volto. Non ti pare di vedere un botolino dentro una cerchia di grossi cagnacci, che con la coda tra le gambe giri attorno a stesso? Con un buon parlare.

E certo il suo dev’essere un umile e buon parlare per chetare i creditori, quando dice: Oggi pagherò te, domani lui.

Ca si alla chiazza mi faciti stari

Iu a pocu a pocu vi mi pagu milli.

La piazza (chiazza) è avanti la Chiesa, è il luogo di riposo, e di diporto nelle domeniche per i braccianti; e ‘l nostro vuole che quivi non lo molestino, perché egli è puntuale, e non che cinque, pagherà mille debitori, ma a poco a poco. La domanda è onesta, ma il difficile in Calabria è di trovare un creditore che ti dia respiro.

Si mi faciti pua sempri ngrignari,

lu mai pagu a tia; pagu a chilli,

Ma mi fazzu na mazza e nu cantaru,

E a tia nni dugnu sette, e cientu a chilli.

Ed ecco qui l’indole nuda del Calabrese. Con le buone ne fate a vostro senno; ma se lo fate adirare (ngrignari), non solo non paga a te ed agli altri, ma si procaccia unamazza del peso d’un cantajo, e le darò a te sette volte per le spalle, e cento per le altrui””””.

Fine della prima parte

Dicembre 2024

​​​​​​​Minùcciu

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