Minùcciu…..bbi cùntadi : L’ùrtulànu 

Luigi Bisignani

San Donato di Ninea 16/11/2024

Minùcciu…..bbi cùntadi 

 L’ùrtulànu 

 Ne’ Il Bruzio del 30 luglio 1864, Vincenzo Padula prende in esame condizioni di vita e di lavoro degli “ortolani”, figura di scarso peso nel sandonatese per via dell’orografia e dello spezzettamento della proprietà, circostanze che non consentono coltivazioni estese, ma solo semine per approvvigionamenti adeguati alle necessità familiari.  

Qualche similitudine con le situazioni prospettate dal Padula la possiamo trovare nella piana, dove l’orografia sarebbe favorevole ma pesa, sia la eccessiva parcellizzazione dei terreni a seguito delle continue divisioni ereditarie, sia la mancanza di un accordo per colture comuni da immettere sul mercato. 

Il piccolo proprietario sandonatese, nel periodo in cui il Padula scriveva, generalmente usava e sfruttava i terreni in funzione delle necessità familiari ed alla vendita destinava quantità minime del prodotto, in parole povere ognuno faceva da se e come meglio gli pareva. 

Comunque nel testo si descrive il mondo agricolo cosentino e si accenna a condizioni, fasi e metodi di lavoro, comuni a quelle che venivano praticate nelle nostre terre, sia montane che della piana. 

Nel virgolettato ed in corsivo il testo di che trattasi: 

 “””Numerosi sono gli ortolani in Calabria, e vanno divisi in quattro classi. La prima, a dir vero, respinge questo nome, essendo che sia formata da massari, massarotti e contadini, che dopo mietuto lasciano il terreno sodo per piantarvi frumentone l’anno vegnente.  

Tranne pochi luoghi, e quelli in ispezialità vicini ai centri popolosi, dove abbondante e facilmente venale è l’ingrasso, i nostri terreni non si ringranano mai, ma si lasciano statare, e solo dopo le prime acque si restovigliano e non tutti, bruciando la seccia, e trattandoli leggermente, o per pratarli, o per porvi pochi cavoli.  

Il nostro villano quando toglie a fitto una tenuta domanda sempre due vicende, e con ciò intende dire d’un podere, di cui nel medesimo anno l’una metà possa coltivarsi a grano, e l’altra a granturco.  

E questo poiché non prova senz’acqua, egli è chiaro che i terreni, cui non mancano mai arrendatori, e che si comprano a prezzi ingordi siano gl’irrigati.  

Questi dunque ricevendo nei loro solchi il granturco associato alle piante baccelline, e all’altre ortaglie, di cui diremo qui sotto, si addimandano orti, ed ortolano chi li coltiva. Gli orti e la loro coltura sono tra noi le cose più belle a vedersi. 

Tranne i terreni non adacquabili dove il gran turco si semina a spaglio (a jiettu), negli irrigati si pianta; e a questa sorta lavoro si adoprano le femmine, che armate d’un cavicchio (piruni) fanno con esso sul margine del porchetto una buca dove gittano il chicco del frumentone. Tre donne, onde a ciascuna si danno 42 centesimi, bastano in un giorno per sette are di terreno.  

Gli uomini fanno la sfioratura; ma le donne affasciano i fiori (bannere), dei quali parecchi si lasciano qua e là interi, non solo per bellezza che ne venga all’orto, ma perché i nostri ortolani credono che di quelle graziose e tremolanti bandiere, che susurrano, le pannocchie innamorino, e si riempiano meglio.  

Le pannocchie (spiche) si sfogliano a veglia; e nelle belle serate tu vedi le nostre ardite contadine assettate sull’aja, che a forza di ugne e di mani vi lavorano sopra; e quelle pannocchine che trovano ancora in latte, oppure imbozzacchite lessano in un pajuolo, e le mangiano.  

Le sfoglie (foderi o sbriglie ) si serbano a foraggio, o per riempire i sacconi; i tutoli (nuòzzoli) scusano le legna d’ardere, e gli stocchi o monconi restano ad infradiciare sul campo per ingrassarlo.  

Il granturco si sgrana a batterlo con bastoni, poi si soleggia, e chi è colono lo divide (ed in che modo il dicemmo) col padrone, e chi colono non è, se lo trasporta a casa; ma sì all’uno e sì all’altro è meno assai del poco ciò che rimane dopo pagati i debiti. 

La seconda classe degli ortolani è di coloro che intendono alla coltivazione dei cocomerai, numerosi nel Vallo, e nelle pianure maremmane, soprattutto del Jonio, dove i terreni sono più estesi e l’acque più copiose. 

L’ortolano prende il cocomeraio o a mezzadria, o a fitto. Nel primo caso, le spese per rompere il terreno, e alletamarlo sono a carico del padrone; a tutto altro provvede l’ortolano.  

Il terreno prima si ara, poi si contrattaglia o intraversa (s’intrava), poi s’interza; e a questo lavoro sopra sette are bastano tre bifolche (iurnati di buoi) che si pagano 12 lire e 74 centesimi quando il bifolco non è spesato, e s’è spesato, 10 e 18; e bastano 64 lire per letame.  

La semente dei cocomeri e dei poponi si pone in macero in una pochina di acqua per quarantotto ore, e quando si è rigonfia, e piglia a muovere si pianta.  

Il cocomero ama un letto spazioso di quattro travi, cioè di quattro solchi; più angusto e di tre lo vuole il popone: entrambi poi sono ghiotti di concio; e però l’ortolano scava una formella larga un palmo e mezzo, fonda un mezzo, e lunga due, e la riempie d’ingrasso. 

Poi copre il letamiere con terreno sciolto e renoso, che ammonta a guisa di pane, vi segna una croce, e vi affonda in mezzo quattro semi, dei quali, quando son talliti, due si sbarbano, e due restano.  

Il cocomero per venire perfetto non deve uscire dal letto; e ligio a questo suo proverbio, l’ortolano ne svetta i polloni con l’ugna, quando tentano d’introdursi nel letto del vicino, e mozza sopra tre occhi quelli del popone.  

Quando l’orto è in fiore è mestieri che i letti si scassino, e le porche si costeggino, e questi lavori che rifiutano l’aratro, e vogliono la zappa, sono i soli che siano a carico dell’ortolano; ed a condurli bastano per sette are trenta opere di braccianti, che si pagano 29 lire e 74 centesimi. – 

I cocomeri presso ai centri per golosi si vendono undici lire la carrata, e la carrata è di 285 chilogrammi: i poponi poi, e massime i vernini, hanno altro prezzo, ed una carrata si vende 17 lire. In modo che, quando la melata (risina) non manda giù le speranze e le fatiche degli ortolani, la costoro condizione è in buoni termini.  

A peggio andare, mi disse uno di loro, la mia giornata di lavoro mi frutta sempre una lira; ma, se la Madonna ci passa per mezzo, un orto di cocomeri rende 552 lire; e 722, s’è di poponi, sicché guadagno due lire al giorno. 

Né questo, la vegga bene, le paja troppo, o signore, perché io poverino ho da starmi li fitto notte e giorno come un piuolo per sei mesi continui, da aprile a tutto settembre, spesso con la terzana addosso, tra un nuvolo di zanzare che m’empiono di cocciuole le carni, e dormire al cielo aperto, o sotto una tettoja.  

Gli è vero, io risposi, e tutte le volte che io passai pel vostro Vallo rimasi dolorosamente affetto al vedervi col viso sbattuto e disfatto, colpa il putridume dell’acque stagnanti; ma con quel tuo star fitto come un piuolo qualche altra cosa devi guadagnaria. Oh sì: vi è un bene, e vi è un male. Il bene si è, che io dico al padrone: l’adrone, io d’inverno non potrò nutrirmi di cocomeri; ho bisogno di pane.  

Permettete dunque che dell’orto io ponga una fetta a granturco. Ed egli me lo concede: ma metto di mio la fatica, di mio la semente, e sol fatto che si è il raccolto, gliene dono un quarto. E poi mi allevo anch’io il mio porcello, e a sagginarlo mi sono assai le bucce dei cocomeri, che i passaggieri si fermano a mangiare nel mio orto.  

Ma il male si è, che il padrone non vuol perdere il frutto del letame; e, quando l’ultimo popone vernino è spiccato, mi dice: Fatti con Dio. Ed io resto senza terra, ed egli la semina a grano a conto suo, e con grande profitto, perché sette are governate a quel modo che i cocomerai richieggono, gittano il quindici.  

Su per giù, mio buon signore, per adoperarci che facciamo, l’opera giornaliera a noi poveri braccianti frutta sempre una lira. Se io fossi fittajuolo, sarebbe altrimente. E perché non lo siete? È facile il dire perché; ma la sappia che per sette are di terreno come queste, a volerle in fitto, dovrei pagare al proprietario 212 lire! 

La terza classe dei nostri ortolani versa in condizioni assai migliori. Questi non coltivano cocomeri, ma erbaggi, hanno lavoro e frutto da un anno ad un altro, non tolgono mai i terreni a mezzadria, ma a fitto, e ‘l voluto per sette are non eccede le cento e sei lire.  

Questa classe può dirsi ricca. I loro proverbii son due: L’uortu è nu puortu; Pe fari buonu l’uortu ci voli n’omu muortu,  

L’ orto è dunque per loro un porto di mare, una sorgente inesausta di denaro, dove un prodotto cessa ed un altro comincia. 

Così ad agosto, imporcato che si è il terreno, sopra una faccia del porchetto si pianta il broccolo, e sulla faccia opposta la indivia o scariola che voglia dirsi; poi dentro ottobre quindi la sverza, e quinci la fava, o il ſinocchio, o il cavolo a torso, o il cavolo a palla, o il cavolfiore; poi finiscono le sverze, e si mettono nel loro luogo le barbabietole (carote), le biete (secre) le carote (pastinachi), i sedani (acci), e via discorrendo.  

Ciò che non si coltivano negli orti nostri sono il radicchio, o cicoria, il cappero, la fragola, il lampone, il cardone, la procacchia (purchiaca) ed altre poche, che vengono su spontanee per prati e boschi, e che le donne dei braccianti raccolgono e vendono.  

Tranne i pomidori, i cappucci, i baccelli (vajane), i fagiuoli in erba e in vainiglia (vajanelle e suriachelle), e le zucche lunghe che si vendono a peso, tutte le altre ragioni di ortaglie si danno in mercato a mazzi ed a reste, il numero dei cui capi varia secondo la grossezza ed oscilla tra i due ed i quattro secondo la maggiore o minore bontà della stagione.  

Quest’anno, per esempio, che geli e brinate han mandato a male gli ortaggi, il loro prezzo è stato come appresso. 

Broccoli, carote e ravanelli due centesimi a mazzo. Finocchi, cavoli, indivia, e carote un soldo ogni quattro mazzi. Di scalogni otto mazzi un soldo; un soldo quattro mazzi di cipolle; un soldo 30 peperoncini; un soldo due sedani, un soldo tre petronciani, un soldo quattro zucche, un soldo due cetriuoli, 12 centesimi un cavolfiore.  

Tutti questi prezzi non entrano pero netti nella scarsella dell’ortolano: il suo garzo ne vettureggia gli ortaggi al paese; e le trecche ed i trecconi, ai quali gli lascia, hanno il premio del dieci per cento. 

I nostri ortolani seguono fedelmente il proverbio: L’uortu tole l’omu muortu. Non si dipartono dal lavoro, vivono seppelliti tra le verdi promesse dei loro porchetti; e le opere ortensi son tali da educarne al bene la mente e ‘l cuore.  

Dei contadini nostri eglino sono i più intelligenti, ed i più buoni, perché la divina provvidenza pare che nel seme che scoppia, nella piantolina, che si arrampica alla frasca, nella bocca del fiore che si apre, abbia messo una predica di morale, la quale al contadino che amorosa mente ne studia lo sviluppo suscita in cuore pensieri tali ed affetti, che sermone di prete non potrebbe far meglio.  

E a renderli buoni giova non poco il non dover tremare per l’avvenire; perché l’ortolano si conficca nel suolo come il suo cavicchio, non ne esce, e, morendo, il figlio entra nel luogo di lui.  

La sua non è la vita nomade del bracciante, né altro emulo fittajuolo puo sgabbellarlo; perché, siccome l’orto è coverto di ortaggi in tutto l’anno, quegli dovrebbe, oltre il prezzo del fitto al padrone, pagare a lui quello degli ortaggi, che sopra sette are non è mai meno di 850 lire; e siffatta somma pochi dei nostri contadini posseggono. 

Finalmente l’ultima classe è di quelli che a prezzo lavorano gli orti dei galantuomini. Sono pochi, ed in migliore condizione che quella dei braccianti non è, avendo il lavoro assicurato in tutte le stagioni, e non ricevono mercede maggiore di 297 lire all’anno.”””” 

 

Novembre 2024 

Minùcciu. 

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