L’affascinu aru paisi

Luigi Bisignani

San Donato di Ninea-16 Agosto 2024

Girovagando su internet e facendo un po di ricerche,ho trovato quest’articolo sull’affascino che si praticava spesso da noi.

CALABRIA. L’AFFASCINU (Il fascino).

In Calabria, se un bambino od un fanciullo dimostra uno stato di indisposizione, o appare svogliato ed inquieto od in qualsiasi modo sofferente, o soltanto pallido più del solito; se uno di quei tanti piccoli o grandi, indefiniti ed indefinibili malori colpisce un individuo qualsiasi; non c’è dubbio alcuno: o stato affascinatu (fascinato). Vale a dire che ha subito l’azione malefica del fascino o jettatura emanante da certe persone, le quali, per malignità, per invidia o per vendetta, oppure involontariamente, con gli occhi (‘u maluocchio) e con le parole (‘u picciu), hanno influito sulla sua salute. Specialmente temuta è l’invidia, che il nostro popolo pone al centro dell’inferno: «’a ‘mmìdia è ‘mmienzu ‘a casa d’ ‘u diavulu », e che il Jaccino (1)tratteggia con efficacia nei seguenti suoi versi :

“La ‘mbiria, frate, ccu ll’uocchi t’ammaziia,
Tè punge tuttu quannu t’accarizza;
Tè mera stuortu, tè rumpa li vrazza,
E ddintra l’ossa le spine tè ‘mpizza. „

(“L’invidia fratello, con gli occhi t’uccide
ti punge tutto quando ti accarezza;
ti guarda bieco, ti rompe le braccia,
e dentro le ossa le spine ti caccia”)

Tra la gente del popolo non vi è chi non sia fermamente persuaso e convinto dall’esistenza tangibile, certa, indiscussa dell’affàscinu e della jettatùra. Le donnicciuole, poi, vogliono andare più in là e vedono il fascino in ogni malattia, arrivando perfino a credere che vi sia non solo chi è affascinatu ppe male (fascinato per male), ma anche chi è affascinatu ppe bene (fascinato per bene). Sicuro, anche per bene! Poiché la perfezione e la bellezza delle forme hanno un potere speciale di attirare il fascino, specie sui bambini, i quali più degli adulti vi sono esposti. E, siano anche gli sguardi di una persona cara e perfino della stessa madre, il fascino è sempre possibile quando gli occhi restano fortemente colpiti dai pregi fisici della propria creatura, o quando, nel farne le lodi, vengono usate parole di grande compiacimento. Ragion per cui, quando si guarda un bambino o si parla della sua bellezza, si suole soggiungere: fora maluocchiu (lungi il malocchio), benedica (Dio benedica), fora affascinu (lungi il fascino), fora jettatura (lungi la jettatura)! Quasi a tener lontano qualsiasi cattivo influsso. Così, in alcuni paesi, non si dice mai che un neonato sia bello e ben fatto; anzi si deve affermare il contrario. A Cosenza, per esempio, nell’ammirare un bel bambino diranno: “Guarda su salinariellu quant’ è bruttu !”(Guarda com’è brutto questo piccolo salinaio !). Dove nell’appellativo di salinaio si nomina il sale, che è ritenuto un preservativo potente contro qualsiasi malìa. A Cetraro il neonato non si fa vedere a nessuno, ma se a qualcuno ciò dovesse permettersi, questo deve ripetere con la madre: “E’ bruttu, è malufattu, prestu mora, ecc.” (E’ bruttu, è malfatto, muore presto, ecc.). Per evitare l’affàscinu vengono usati moltissimi mezzi od oggetti come preventivi. Comunissimo l’atto di far le corna con la mano, chiudendo tutte le dita, meno l’indice ed il mignolo, che si mantengono distesi; o la sollecitudine a toccar ferro, cioè una chiave, un cornetto; un oggetto qualsiasi dello stesso metallo, quando si vede avvicinare una persona sospetta. E’ altrettanto comune l’abitudine di ricorrere ad alcuni atti non sempre eccessivamente corretti ed a parole che non peccano certo di puritanesimo per mettere in fuga la jettatura atti e parole che non è proprio il caso di specificare. Vale invece la pena di soffermarsi alquanto sulla fiducia che gode la saliva, e sull’uso di alcuni determinati oggetti saliti all’onore di talismani ed amuleti, come preventivi dell’affascinu perché ci riportano a considerazioni ed a tradizioni che si collegano con le credenze ed i pregiudizi del nostro popolo, continuandosi in essi immutate o variate di poco. Alla saliva, sputazza la medicina popolare attribuisce portentose virtù sia preventive che curative, specialmente a quella di alcune persone che godono di particolari requisiti, come una donna che abbia attraversato lo stretto di Messina, un prete dopo aver celebrato la Messa, ecc. Persino un nostro canto dialettale, traendo lo spunto dal potere attribuito alla saliva, così esprime un odio mortale:

” Brutta, ca me si ‘nn’odio allu parrare,
lu mai lu nume tue vurria sentire:
Ca ti vulerra ‘mpinta allu spitale,
Ccu ‘nu male suttile ‘ntra li rini;
Lu miedicu ‘un ti pozza àtru ordinare
Ca la sputazza mia ppe ti guarire:
Sterra sett’ anni senza mai sputare,
E de stu male ti farria murire.

(“Brutta, che mi sei in odio quando parli,
io non vorrei sentir mai il tuo nome:
vorrei vederti con dimora fissa all’ ospedale,
con una malattia consuntiva dei reni;
il medico non possa prescriverti che la mia saliva per guarirti:
starei sette anni senza mai sputare
e ti farei morire di questo male”).

Riporto integralmente quanto scrive il Dorsa sull’argomento: “La saliva. Ecco un bimbo, vispo, vezzosetto, latte e minio sul volto. La donuicciuola nel vederlo, presa da meraviglia, esclama: fora affascinu, fora maluocchiu (il praeficiscine dei Romani), e gli sputa tre volte sul viso. Gli sputa perché i suoi occhi eccitati dalla influenza demoniaca della meraviglia non lo stregassero; giacchè si crede che la bellezza delle forme del corpo sia specialmente soggetta all’affatturamento, come se questo, destando l’ammirazione, dia occasione a soverchio plauso… Anche la balia sputa tre volte quando si accorge che il suo bambino è guardato con attenzione da alcuno; e con tre sputi le donne acritane salutano la nascita di un bambino nel momento che mettono piede nella stanza della puerpera per visitarla… Sono vive tradizioni di usi e credenze assai diffuse presso gli antichi. Plinio ne da minuto ragguaglio e somma tutto in questa sentenza: terna despuere deprecatione in omni medicina est. Il giovine Dameta in Teocrito (Id. VI), vagheggiandosi con Dafni, perché nello specchiarsi al mare aveva veduto bella la sua barba, bella la sua pupilla, bianchi e lucidi i denti, soggiunge:

… E perché fatta
Non vengami malìa, tre volte in seno
Sputàimi, come m’insegnò la vecchia Cotittari ….

Spesso all’ atto dello sputare si aggiunge l’ esclamazione: otto e nove ! atteggiando nel tempo stesso la mano destra nel modo, che tenuti chiusi i tre diti intermedi ed estesi i due estremi, ne dia la figura di due corna”. Fin qui il Dorsa. Passiamo ora ad occuparci un po’ degli amuleti, i cosiddetti cuntraffàscini preservatori. Questi, aggruppati in mazzina (piccolo mazzo), pendente da una collana d’oro o d’argento, o da un semplice nastro di seta, vengono appesi al collo dei bambini, che non devono mai abbandonarli. I cuntraffàscini sono rappresentati dai più strani e più disparati gingilli, ognuno dei quali ha il suo speciale significato e valore di amuleto. Quasi tutti ci richiamano ad una credenza o ad un’ antica tradizione. Vi è il numero 13 foggiato in oro, circondato da un cerchietto o inciso a smalto su un piccolo disco dello stesso metallo, rimasuglio della credenza orientale nel simbolismo e nel misterioso potere dei numeri. E non vi manca una manina che fa le corna, detta l’ otto e nove per antonomasia e che il Dorsa ritiene rappresenti la quaedam res turpicola di cui parla Varrone, la quale solea sospendersi al collo dei bambini romani per preservarli dal fascino. Potrebbe anche pensarsi che la quaedam res turpicola sia invece rappresentata da quell’altro amuleto consistente pure in una manina, ordinariamente di corallo rosso, ma, che, a differenza della precedente, a pugno chiuso, sporge la punta del pollice tra l’indice ed il medio, nell’atto di far le fiche. E che, al pari dell’altra, fa parte degli oggetti della mazzìna ed è ritenuta di grandissimo potere contro il malocchio. Tale opinione si basa sul fatto che l’atteggiamento della manina è discretamente pornografico e tale da costituire un richiamo al culto fallico dei Romani, quando il phallus era usato dagli adulti come amuleto e messo perfino sulla porta di alcune case come scongiuro o come insegna, del che, senza andare troppo lungi, si hanno non pochi esempi negli scavi di Pompei. Essenziale ed immancabile è pure il cornicino, ‘u cuorniciellu, il quale è comunemente portato addosso come amuleto anche dagli adulti di ogni condizione, non esclusi coloro che al fascino dicono di non credere. Sono d’importanza meno capitale, e tuttavia tenuti in buon conto fra i cuntraffàscini, una piccola conchiglia, una rana, una chiavetta masculina cioè non perforata, un pesciolino, un trifoglio, una minuscola scure, una posta, o chiodo a forma di quelli da maniscalco, un gobbetto, un maialetto, una tartaruga, una mezzaluna, un minuscolo ferro da cavallo, con o senza la zampa, una scarpetta ‘ntacciata vale a dire imbullettata, una piccola caffettiera… e chi più ne ha più ne metta, purché siano aggruppati in modo che tredici di essi concorrano a formare la mazzìna. Non uno di più, non uno di meno. Alcuni di questi oggettini, che oggi sono per lo più di oro, di argento o di corallo, si fabbricavano originariamente in osso od in salgemma. La più lontana tradizione ed i rinvenimenti paleologici son testimoni del come, fin dall’età della pietra, presso tutti i popoli primitivi, era con l’osso che si fabbricavano amuleti, talismani, idoli ed oggetti di tutte le specie. Come fanno ancora oggi alcune tribù di negri africani e di australiani. In quanto al sale, poi, bisogna ricordare, ed è stato fugacemente accennato, che nel pregiudizio popolare esso è ritenuto di speciale potenza non solo nel produrre gli incantesimi e nello scioglierli, ma anche come efficacissimo rimedio preventivo e curativo del fascino, e coadiuvante essenziale di alcuni carmi, come vedremo. E’ la tradizione greco-latina che si mantiene quasi immutata. In Grecia, infatti, se ne servivano le fattucchiere nei loro incantesimi. I Romani lo adoperavano nelle cerimonie sacre: “… et puri lucida mica salis” dice Ovidio, al proposito. Il chiodo, ancora, quello da maniscalco, che, incurvato ad anello, anche alcuni adulti portano al dito per scaramanzia, ci riporta al costume romano dei chiodi della fortuna. “L’uso di questi chiodi — scrive il Preller nella sua Mitologia Romana — era molto diffuso nella vita privata di quegli antichi, i quali se ne servivano per allontanare da loro e fissare altrove le malattie e le cattive influenze. Per tale credenza, in occasione di una peste scoppiata a Roma nell’anno 391, si creò un dictator clavi fingendi causa, ed Augusto stabilì che i Censori usciti di carica dovevano portare un chiodo al tempio di Marte vendicatore”. Non altrimenti alla fine della grande guerra ogni soldato tedesco piantò un chiodo nella colossale statua del Maresciallo Hindenburg. Dell’arsenale magico contro il fascino fanno parte integrante altri due amuleti creduti di effetto portentoso: ‘a gacciulla d’ ‘u truonu o petra d’ ‘u truonu (la pietra del fulmine), detta altrimenti l’ugna de la gran bestia (1’unghia del diavolo), piccola scheggia di silice scura incastonata nel metallo, ed un altro oggetto, pure di pietra, di forma ovale allungata, con un foro nel mezzo o verso uno degli estremi, detto semplicemente gacciulla (piccola scure). Sono entrambi interessanti dal punto di vista della tradizione e della storia dell’ umanità. Il primo, ‘a petra o gacciulla d’ ‘u truonu, è detto così perché ritenuto di provenienza celeste, giunto sulla terra con gran luce, il lampo, e con alto schianto, il tuono. Manifestazioni e messaggio della collera divina. Ed ecco nella mente grezza del contadino, nella fantasia eccitabile del volgo, rivivere il sacro terrore per le meteore, quale scosse gli animi delle genti primordiali, che al fulmine si inchinarono esterrefatte e ne fecero oggetto di pavida adorazione. La terra, profondamente scavata e rimossa per i lavori agricoli, mette di tanto in tanto in luce qualche frammento di silice grigio-scura, chiummìna e tagliente per naturale frattura. Non c’è alcun dubbio, allora: è la petra d’ ‘u truonu! Nerastra per effetto del fuoco celeste che l’ha accompagnata; tagliente per potere in maniera più adatta divellere, stroncare, abbattere, perforare, uccidere come lo può una scure (gaccia; diminutivo: gacciulla); sprofondata sette palmi nella terra per effetto della velocissima caduta. La gente del popolo non concepisce altrimenti l’essenza del fulmine. Non può una mente grossolana mettere in giusto rapporto di interdipendenza una forza immateriale con effetti così terribilmente tangibili. E la pietra viene raccolta come oggetto di grande venerazione e custodita gelosamente, perché ritenuta ricca di poteri occulti. Specie se nella sua compagine presenta delle venature o delle striature bianche, lo quali sono interpretate come lettere o segni ultramondani della più oltremondana cabala. Fortunato chi di tal pietra potrà averne un pezzettino, che, incastonato nel metallo, costituirà un prezioso amuleto ! Si è detto che ‘a gacciulla d’ ‘u truonu con altro nome vien chiamata l’ ugna de la gran bestia. Eccone la spiegazione. Il colore grigiastro, la semitrasparenza, l’aspetto corneo della frattura silicea, richiamano per somiglianza un frammento di unghia di asino. Non occorre altro perché il popolino, abituato a vedersi raffigurare il diavolo come un mostro dai piedi asinini, consideri la pietra come un pezzo d’unghia di quella gran bestia. Talismano portentoso per l’antica tradizione pagana, non ancora spenta, che attribuiva ad alcuni oggetti virtù miracolose concesse dai loro numi. Oggetti ritenuti ancora oggi ricchi di poteri magici, quali mezzi o strumenti usati dal demonio per produrre prodigi tra gli uomini. Vero è che la magia, quale emanazione diabolica, è ritenuta peccaminosa ed empia, ma si è pure convinti della realtà e potenza dei suoi effetti, onde il nostro popolo, pur adorando Iddio, si raccomanda al diavolo. L’ altro piccolo amuleto ovale e perforato, che abbiamo detto chiamarsi semplicemente gacciulla, riproduce esattamente nella sua forma quella delle scuri di selce che l’uomo preistorico si fabbricava prima che avesse conosciuto i metalli ed il loro uso. È dunque un richiamo a quei tempi remotissimi e tenebrosi. “Né sorprende — fa osservare il Dorsa— questa assai tarda reminiscenza, se consideriamo che le scuri di pietra levigata, cadute di uso ed obliate dopo la scoperta del bronzo e del ferro, diventarono oggetti di superstizione quando le scoprirono ai posteri le terre scavate o lavate dalle pioggie. Diventarono poi amuleti per opera soprattutto dei sacerdoti e seguaci del dio Mitra, nel III o nel IV secolo cristiano… Leggiamo che nel 1081 Alessio Comneno, imperatore di Bisanzio, inviava ad Enrico IV di Allemagna un presente, il quale componeasi di una croce di oro con perle, di una coppa di cristallo, di una teca con reliquie di santi e di una scure di pietra montata in oro….” Per allontanare dai neonati i cattivi spiriti e le male ombre ed i tristi influssi di ogni specie, si usa legare loro attorno alle fasce un cordone benedetto, cui sono appese le cosiddette divuzioni. Si compongono, queste, di medagliette e crocette ed altri piccoli oggetti sacri o benedetti, che possono essere vari. Ma quello che costituisce la parte rituale delle divuzioni è una specie di sacchettino quadrato o a forma di cuore, detto dal volgo Giesu o Giesitiellu o, più comunemente, abitiellu, (abitino), che contiene un frammento di stola sacra, una foglia di ulivo benedetto, un pò di cera da altare, un pizzico di incenso e tre granelli di sale. Tre il misterioso numero dispari; il sale elemento di stregoneria; ed insieme roba sacra! Il cristianesimo, com’ è naturale, va sostituendo pian piano 1′ uso di oggetti e di pratiche religiose a quelli pagani, ma il popolino, specie quello dei villaggi e del contado, legato ancora alle tradizioni dei suoi avi, non se ne sa liberare completamente. Guai, per esempio, a lasciar fuori ad asciugare le fasce e la biancheria dei neonati dopo il tramonto! I cattivi geni, che cominciano a mettersi in giro appunto al calar del sole, comunicherebbero a quegli indumenti tristi poteri, che sarebbero pregiudizievoli alla salute delle piccole, innocenti creature, quanto più tenere tanto più esposte a subirne gli effetti. Un neonato, che indossasse quei panni, ne rimarrebbe dissumbratu (adombrato) e non troverebbe riposo. Quindi l’ accorta madre, la buona, premurosa nonna, se per avventura fossero incorse in quella trascuratezza, non userebbero quella biancheria e quelle fasce senza averle ben bene affumicate con l’ulivo benedetto messo a bruciare sui carboni ardenti. Ugualmente si dissumbra un bambino se viene tenuto alla finestra, dopo il tramonto, da una donna che non abbia latte. Se ciò avvenisse, bisognerebbe lavar subito il viso al bimbo con acqua tiepida, in cui la madre avesse fatto cadere tre gocce del suo latte, spremuto dalla mammella destra, come quella che è del lato della mano che serve a farsi il segno di croce. « ‘A notte è d’ ‘u diavulu » dice l’adagio calabrese, e quindi di tutte le potenze che dal diavolo provengono od a lui fanno capo: anime dannate, spiriti maligni, streghe ecc. Non è forse la tradizione latina delle Lamiae, delle Larvae, dei Lemures e di tutte le notturne coorti erranti per spaventare e recar male ai mortali? Non è l’ antica credenza delle Lamie tessale, erranti assetate, di notte, per succhiare il sangue ai bambini o divorarli addirittura, quella che fa esclamare ad Orazio: «Neu pransae Lamiac vivum puerum extrahat alvo»? Ed ecco, baluardo insormontabile presso il bambino che dorme, ‘u crivu (lo staccio), che terrà lontani da lui gli erranti spiriti della notte, e che la provvida mamma gli pone accanto o sul lettuccio, specie se deve allontanarsi un poco di casa. E ne sarà tenuto lungi pure l’aguriellu d’ ‘a casa o monachiellu (il folletto), il Lare o Genius dei Latini, a volte buono e scherzevole, a volte capriccioso e tormentatore. Ecco un bambino che dormendo sorride. E’ l’aguriellu, che lo trastulla nel sonno. Un bambino, mentre dorme, sembra che soffochi e si dibatte e con le manine annaspa sotto 1′ oppressione di un incubo? E’ l’aguriellu; lui, sempre lui! Che gli è montato a cavalcioni sullo stomaco e con le gambe nervose gli comprime i fianchi e con le mani gli tappa la bocca. Ecco perchè la superstiziosa connetta non presterebbe mai per la notte lo staccio, chiunque glielo chiedesse. Ma un brutto giorno… Nonostante la piena efficienza della batteria di amuleti, talismani e cuntraffàscini di ogni sorta, malgrado tutte le magiche precauzioni, il bambino non è del solito umore; piagnucola, è irrequieto, rifiuta l’alimento, ha un po’ di febbre, vomita… La mamma, la buona, ingenua mamma, convoca immediatamente una specie di consiglio di famiglia per stabilire il da fare. La nonna si stringe nelle spalle. La zia non ne capisce nulla, perché… è zitella (nubile). Gli uomini di casa, quelli è inutile immischiarceli, perché, tanto, di queste cose non possono intendersene. Ed allora? Si va al medico? Oh, no! Per quello c’è sempre tempo, caso mai… Che direbbero i parenti, che direbbero i vicini, che direbbero soprattutto le comari, se al primo annunzio di un malessere si ricorresse subito al medico? Sarebbe una vera spanticafina (un allarme esagerato)! Piuttosto, ecco, sarà opportuno interpellare la vecchia cummàri Agatuzza. Quella per le malattie dei bambini è proprio adatta! Detto, è fatto. Cummàri Agatuzza viene, guarda, palpa, spreme, misura… Sicuro! Misura anche. Per assicurarsi che il bambino non sia crepàtu (crepatura, distrazione dei muscoli del tronco) o non abbia i cuosticielli caduti (le costole indolenzite o spostate), nel qual caso bisognerebbe riaggiustarlo, tenendolo sospeso testa in giù per i piedi, e, stando così, fasciarlo stretto, dopo averne strofinato il torace ed il dorso con zucchero e saliva, o con un po’ di latte della madre. Ma non si tratta di questo; i cuosticielli sono a posto. Ed ecco balzar fuori la diagnosi, che non ammette discussioni: ‘U piccirillu è affascinàtu ! Ed il rimedio? Facile, pronto, sovrano: ‘ U carmu. Mai in altra malattia più che nell’ affàscinu il carmu trova la sua indicazione precisa, categorica. Mediante questo, dunque, si procederà subito allo spàscinu (sfascino). Naturalmente la vecchietta, che la sa lunga, sa anche fare ‘u spàscinu (annullare gli effetti del fascino), e la madre fiduciosa, un occhio al bambino, un occhio alla vecchietta, si siede di fronte a lei col pargolo in grembo ed attende. Qualche ordine a mezza voce, del tramestìo; qualcuno esce, ritorna… e l’armamentario magico è pronto. Un po’ di brace in una bacinella sforacchiata, alcuni granelli d’ incenso, un pizzico di sale, una chiave. Tutti, intorno al gruppetto, religiosamente assistono allo svolgersi del magico rito. Al cenno della comare sulle braci viene sparso l’incenso, il cui fumo odoroso terrà lontana ogni malìa, e si recita un Credo per propiziarsi l’ aiuto divino. « L’affàscinu se carma ccu ‘nnu Credu e ccu llu fumu de lu ‘ncienzu », il fascino si calma con un Credo (simbolo degli Apostoli) e col fumo dell’incenso (profumo purificatore, che accompagna le cerimonie sacre). E la sfascinatrice entra in funzione. Con la solennità di una sacerdotessa ella medesima impugna la chiave e la mette fra le mani del piccolo paziente, indi si fa il segno della croce biascicando alcun che di inintellegibile, si metto in bocca un briciolo di sale e comincia il carmu dello scongiuro, la cui recitazione si indovina solo dal movimento, delle labbra:

“Chi t’adi affascinato, gioia mia?
I.’ uocchi e li cigli de lu vicinanzu.
Chi t’a dde spascinare, gioia mia?
Lu sa lu Patre e tu Spiritu Santu.

Fora affàscinu ! Ascenziune
Vene dde juovi e ti cummoglia
E t’ ammuccia sti bellizze.
Ascenziune vene dde juovi,
Èscia llu male e trasa llu bene”

(” Chi ti ha fascinato, gioia mia?
Gli occhi e le ciglia del vicinato
Chi ti dovrà sfascinare gioia mia?
Lo sa il Padre e lo Spirito Santo

Va via, fascino L’Ascensione
viene di giovedì e ti ricopre
e ti nasconde queste bellezze
L’Ascensione viene di giovedì,
esce il male ed entra il bene”)


II CARMU viene recitato per tre volte nella stessa seduta; tre volte negli intervalli la donna lambisce con la lingua la fronte del bambino; tre volte gli alita sul viso, e tre volte sbadiglia. E’ da notare che lo sbadiglio è più o meno spontaneo e profondo, alle volte sino a strappare le lagrime, in proporzione diretta dell’ intensità del fascino. Poi la vecchietta resta alquanto come assorta, e l’atteso verdetto vien fuori: “Eh! Comare mia: ‘a criatura era affascinata forte, ca me su’ esciute ‘e lacrime ‘e crudu, ed era affascinata, ppe bene (oppure: ppe male)! Se non guarisce oggi stesso, domani e dopodomani ripeteremo ‘u spàscinu e tutto sarà finito con l’ aiuto di Dio, s’ ‘un ce passa llu vènnari”. (“… il bambino era fascinato forte, tanto che mi sono sprizzate spontanee le lagrime, ed era fascinato per bene… o per male!… se non ci passa il venerdì”). Perché è di importanza capitale che il fascino sia vinto e scacciato prima che ci passi il venerdì, altrimenti sarebbe impossibile che il bambino possa guarire, se non dopo il venerdì seguente. Infine la donna riceve la paga, perché lo scongiuro non sarebbe valido se non venisse pagato, e soddisfatta va via, accompagnata fino alla porta dalla madre del bimbo, un po’ più consolata, dai parenti del malatino o dagli intervenuti, se ce ne sono. Il carmu sopra riportato accenna chiaro alla causa del fascino secondo la concezione popolare ed è improntato tutto all’idea religiosa. Lo sa Iddio che cosa ci vuole perché il piccolo ammalato guarisca, ed Egli provvederà a farlo star bene. Un’arcana influenza è ravvisata nel mistero dell’ Ascensione, per fugare il male, e nel giorno in cui tale festività, accade, come che rappresenta un evento di purificazione e di preservazione, che dovrà magicamente nascondere agli occhi altrui i pregi fisici del bambino, affinché nessuno possa più restarne colpito e quindi recargli nocumento. Il dialogo della prima parte del carmu è tutto apparente, poiché le domande non vengono in effetti rivolte ad alcuno, e le risposte non sono che l’affermazione delle credenze comuni. Non è questo, naturalmente, il solo carmu per l’ affàscinu essendovene altri che variano da regione a regione. A Cosenza e paeselli viciniori, per esempio, é molto più semplice:

” Chin’è statu chi t’ha affascinatu?
Su’ stati l’uocchi, ‘u core e la mente.
Passa affàscinu, c’ ‘ud’ è nnente!”

” Chi è stato a fascinarti ?
Sono stati gli occhi, il cuore e la mente
Esci fascino, che non è niente!”

In quel di Grimaldi il CARMU è espresso con parole rivolte direttamente al fascino come ad una persona, alla quale, perché vada via, si voglia quasi far credere che il bambino è brutto e quindi non propizio alla malìa:

“Escitinni, affascinu,, tuttu,
Ca chissu è luocu brutto,
Ca chissu picciriddu
E’ assai bruttuliddu”.

” Vattene, fascino, tutto,
perché questo luogo è brutto,
perché questo bambino
è assai brutterello”.

E via di questo passo. Può darsi che la comare provetta nello sfascino non possa recarsi dal fascinato, nè questi possa uscire di casa. Basta allora mandare qualche indumento che l’infermo abbia indossato, e magari un fazzoletto che egli abbia tenuto
in mano, e lo spàscinu praticato su quello, avrà la stessa efficacia come se fosse fatto sull’infermo. In caso di necessità, infine, qualunque altra donna che conosce le formule degli scongiuri può dar l’opera sua, ma il carmu avrebbe minor valore

Molti dicono di non credere a queste fesserie,ma moltissimi l’hanno fatto!!

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