Luigi BisignaniNoi, che nel medioevo…Parte seconda
Noi, che nel medioevo…Parte seconda (Minucciu)
…La famiglia Tonti, da mercanti avveduti, se hanno ottenuto ed accettato il “feudo” sandonatese, dovevano essere in possesso di buone informazioni sulla redditività dei “negozi” che si accingevano ad intraprendere.
Si presume che dalle attività su terre e casali che costituivano il “feudo” ricavassero abbastanza da poter almeno parzialmente “rientrare” dall’ammontare dei prestiti alla famiglia regnante, ciò desunto anche dal subentro nel “titolo feudale” da parte del figlio di Filippo, Jacopo, che ne continuò lo sfruttamento su popoli e territori.
Altri ricavi si ottenevano ricorrendo all’impiego dei reclusi, in quei tempi obbligati al lavoro, quindi manodopera a costo zero destinata a lavori pesanti, fra i quali l’attività estrattiva e lo sfruttamento del bosco.
Per le attività manifatturiere certamente è stata coinvolta la popolazione locale, almeno nella coltivazione di canapa, lino e ginestra e nell’allevamento del baco da seta, tutte attività regolarmente sottoposte ad esazione.
È probabile che i Turdo-Tonti nel territorio sandonatese abbiano messo piede raramente perché, al pari degli altri “baroni”, erano obbligati a risiedere nella capitale del regno.
Come all’epoca usava, avevano sul posto un fiduciario che ne curava gli interessi ed al quale generalmente praticavano la sub concessione (suffeudo), come evidenziano i contenuti del contratto per lo sfruttamento minerario, stipulato da Filippo Turdo con i fratelli Guiduccio e Giovannuccio Passanante (o Passavante) originari del contado lucchese.
Attorno al primo decennio del 1300, Filippo Turdo aveva delegato la gestione del feudo sandonatese a Giovanni de Principato che, assieme ad Amicucio de Nomiciis, lo aveva rappresentato presso il re in una contesa con i delegati pontifici, nata a causa di eccessi ed irregolarità nel taglio di legname di alto fusto prelevato nelle terre del feudo.
La controversia ci fornisce l’occasione per accennare che durante la signoria di Filippo e Lapo Turdo, “un pezzo di San Donato” venne asportato per essere impiantato in San Giovanni in Laterano ove rimase per circa mezzo secolo, quando venne disperso da un incendio (l’ennesimo che distrusse la sfortunata basilica).
Cito una cronaca di un anonimo romano dell’epoca “…nella notte del 6 maggio dell’anno 1308 la basilica di nuovo rimaneva consumata da uno spaventoso incendio, e, caduto il tetto, le colonne furono spezzate e calcinate, ogni monumento ridotto in frantumi.
Il papa era Clemente V, il quale s’accinse alla riedificazione del tempio, che però non fu compito sotto di lui, ma nel seguente pontificato.
Non trascorse mezzo secolo e nel 1360 un altro incendio consumò di nuovo il Laterano.
Riporta l’anonimo: ”Urbano V si diè allora a rifabbricarlo affidando l’opera all’architetto senese Giovanni Stefani. La basilica d’Urbano nulla più conservò di quella di Sergio”.
Ho riportato una piccola porzione di storia del Laterano, per meglio collegarmi agli avvenimenti successivi all’incendio del 1308 ed allo svolgersi di vicende relative ad un edificio di tanta importanza e prestigio nelle quali San Donato è stato coinvolto.
Le circostanze che narro sono tratte da documenti custoditi presso l’Archivio vaticano, resi di pubblico dominio nel 2008 con la pubblicazione di alcuni “regesti”, dai quali si evince che, dopo l’incendio del 1308, le autorità vaticane rivolsero un appello a Carlo d’Angiò perché fornisse il legname necessario per la ricostruzione del tetto della basilica.
Uno dei detti “rotulus”, reca l’annotazione: “questi sono lesenpi de tute karte ke fece fare vari lotti in kalabria”.
Vi sono raccolti atti risalenti agli anni tra il 1308 ed il 1312, concernenti la fornitura delle travi occorrenti per allestire l’armatura del tetto della basilica lateranense e concesse per interessamento di re Carlo II d’Angiò e di suo figlio Roberto.
Clemente V richiedeva il legname “gratis et amore dei, in espiazione dei peccati”.
La richiesta fu in parte accolta dai re angioini, i quali autorizzarono il taglio ed il trasporto dei tronchi, concedendo però la sola esenzione da gabelle e tasse (all’epoca dovute per poter attraversare i vari feudi), comprese quelle di imbarco, visto che il trasporto dei tronchi dalla Calabria a Roma doveva avvenire via mare.
Fra i boschi della Calabria interessati al taglio, ve ne erano anche alcuni ubicati nel territorio sandonatese, il cui feudatario unitamente agli abitanti-proprietari, rivolsero querele al sovrano perché gli agenti vaticani preposti al taglio, interpretando in maniera estensiva la concessione (limitata al solo demanio regio), avevano invaso proprietà feudali e private cagionando danni alle aree boschive.
Il pontefice aveva conferito mandato al cardinale Giacomo Colonna perché curasse la ricostruzione della Basilica Lateranense, affiancandogli Giovanni Boccamazza e Francesco Napoleone Orsini, cardinali incaricati di sovrintendere ai lavori della ricostruzione.
Per il legname “ordinario” i porporati ebbero incarico di farne ricerca nei boschi della capitale ed in quelli vicini.
Per le travi di “dimensioni adeguate” abbiamo visto che il Pontefice scrisse a Federico d’Aragona, re di Sicilia ed a Carlo II d’Angiò, re di Napoli, chiedendo loro di far ricercare nei propri boschi il legname necessario e di inviarlo a Roma.
La casa d’Angiò, per fede e per convenienza (valse probabilmente quest’ultima perché il casato doveva al papato la legittimazione a regnare), avuta notizia del disastro (pare causato da un sacrestano di nazionalità francese, che si addormentò senza spegnere un focolare), stanziò a favore della ricostruzione una cospicua somma di danaro (400 once in oro più altre 200 successive), somma interamente mutuata ai sovrani angioini dalla società mercantile dei Bardi di Firenze.
Con successivo atto del novembre 1308, re Carlo II informava il figlio Roberto, duca di Calabria e vicario nel regno, sui solleciti ricevuti dal cardinale Colonna, il quale segnalava l’urgente necessità delle travi di copertura, da ricavarsi da alberi di alto fusto delle foreste calabresi, trasmettendo un analitico elenco dei “pezzi” occorrenti, dei quali venivano indicate numero e dimensioni.
Per accelerare la fornitura, al funzionario responsabile dell’arsenale di Napoli, venne ordinato di mettere a disposizione due “uscieri” (galee aperte) per il trasporto dalla Calabria a Roma, sia delle grosse travi, sia di tutto l’altro legname occorrente.
Nel 1310 Roberto d’Angiò, ordinava a “giustizieri, secreti, maestri portolani, custodi della foreste e funzionari fiscali” della Calabria, di disporre l’esenzione da qualsiasi tributo inerente il trasporto del legname alla volta di Roma.
Raccomandava che i lavori di taglio e trasporto avvenissero senza alcun contrattempo e vietava ai preposti al taglio ed al dimensionamento delle travi, la vendita a terzi del legname destinato alla basilica (se ne desume che, anche a quei tempi, vi erano speculatori “a rialzo” del prezzo delle merci, legname compreso).
Si poneva anche il problema “sicurezza personale”, molto avvertito, tanto che il sovrano richiedeva al giustiziere di Val di Crati e terra Giordana di proteggere i sovrintendenti ai lavori, tali Lancia Pecorono, Giacomo Cuorezio e Tommaso di Pietro di Tomaso (agli stessi venne concesso di portare armi) e di agevolare in ogni modo acquisto e trasporto del legname alle località costiere calabresi.
Si precisava che per il trasporto via terra delle travi e fino ai porti del litorale tirrenico, erano stati nominati ed incaricati “preposti”, aiutati da numerosi “operai” e “factores”, più dieci buoi.
Si comminava una multa di 50 once (o di importo superiore a discrezione del re) a coloro che avessero ostacolato lavori e trasporto e si imponeva ai funzionari regi di non chiedere a Lancia Pecorono, Tommaso di Pietro di Tommaso da Roma, Vanni Lecti da Orvieto e Massucio da Palermo “cum suis famulis”, pagamenti di pedaggi, plateatico o diritti per exiturare o dohanae.
I ritardi nella fornitura, oltre che da tentativi di frode ed impedimenti posti in essere da potentati locali, potrebbero essere derivati anche dalla particolare conformazione dei territori calabresi, caratterizzati dai tragitti accidentati che le bestie da traino dovevano percorrere per raggiungere i porti di imbarco.
Qualche altro ostacolo potrebbe averlo creato l’azione di intermediari che con modesti anticipi “accaparravano” le partite di legname e poi instauravano lunghe e faticose trattative con gli inviati pontifici ai quali rivenderle.
Inoltre, qualche bastone fra le ruote lo mettevano i “baroni” ed i latifondisti, in questo aiutati dalle popolazioni dei borghi interessati dal taglio e dal transito del legname.
Dai regesti vaticani rileviamo che Il 25 aprile 1312, con atto redatto da Bartolomeo di Capua ed indirizzato al giustiziere di Valle del Crati e Terra Giordana, Roberto d’Angiò, accoglieva il reclamo dei procuratori di S. Giovanni in Laterano ed ordinava al funzionario, di attivarsi ed obbligare alla esecuzione degli ordini regi, “tale Amicucio de Nomicisio da Cotrone, signore del castello di Mercurio” (attuale Castromercurio, località montana di Orsomarzo) nonché proprietario della foresta di “Nova Aqua”, presso il “castrum Sancti Donati”, selva nella quale doveva tagliarsi il legname occorrente alla ricostruzione del tetto della basilica lateranense. Il sovrano autorizzava l’uso della forza contro i feudatari che dovevano essere obbligati a rimuovere impedimenti ed ostacoli da chiunque frapposti. Ordinava inoltre che fossero sottoposti alla esazione coattiva delle sanzioni pecuniarie in precedenza stabilite.
Assieme ad Amicucio de Nomicisio, l’esecuzione forzata era autorizzata anche nei confronti di Giovannuccio Passavante de Fitigio, il quale si era opposto al taglio degli alberi necessari alla realizzazione delle travi dalla foresta di Nova Acqua, eccependo di aver in precedenza acquistato proprio detto legname dal de Nomicisio.
Entrambi avevano forzosamente impedito ai delegati vaticani, il taglio delle alberature necessarie ai lavori di ricostruzione di S. Giovanni in Laterano.
Altro impedimento era stato posto in essere dagli uomini della vicina città di S. Donato, contrari ai tagli nei boschi del loro “castrum”.
Al provvedimento del sovrano angioino e contro la sua esecuzione forzata, avevano fatto seguito le vibrate proteste del “miles Filippo Turdo maestro della regia marescallia”, al quale si era associato Amicucio de Nomicisio “familiaris regio”.
Entrambi contestavano la pretesa dei preposti all’opera di S. Giovanni, i quali si ritenevano autorizzati al taglio del legname in tutti i boschi della Calabria, sia di proprietà della Regia curia, sia di privati.
Oltre che nei boschi ubicati nelle terre demaniali (curia regia) e di quelli di Nova acqua, il legname necessario doveva essere reperito anche nei boschi proprietà del principe di Taranto (Filippo d’Angiò, il fratello del re), ubicati presso le “terre di San Donato”.
La particolare circostanza era determinata dalla floridezza dei boschi e faceva si che, la maggior parte del “legname lungo” occorrente per la ricostruzione del tetto della basilica lateranense, pesasse sulla Calabria.
Dai “regesti”, non appare che i sovrani aragonesi abbiano aderito alla richiesta pontificia e ciò fa presumere che dalle foreste siciliane non sia stato estratto nulla ed “i legnami di adeguate dimensioni” siano stati ricavati tutti nelle foreste calabresi.
A protestare non erano soltanto i feudatari circonvicini a San Donato.
I reclami erano generalizzati e causati, sia da metodi e procedure di taglio “spicce”, sia da mancati pagamenti e/o risarcimenti a privati, le cui proprietà venivano invase senza preavviso e danneggiate senza il loro consenso.
In seguito alle proteste, con provvedimento del giugno 1312, Roberto d’Angiò confermava di aver autorizzato i tagli del legname soltanto nei boschi di proprietà della Curia regia.
Chiariva che nessuna operazione poteva essere fatta nei boschi di privati senza il consenso dei proprietari.
La questione non venne affatto chiusa dalla decisione del monarca angioino.
Nell’agosto 1312, i Giudici della Terra di Scalea, formularono un atto con cui si accoglieva un reclamo dei procuratori di S. Giovanni in Laterano, i quali lamentavano che Amico Nomiciis (signore di Castromercurio) e Giovanni de Principato (castellano del “castrum Sancti Donati”), agendo in nome e per conto di Lapo Turdo, signore di S. Donato, con minaccia delle armi e da loro uomini, avevano fatto rubare 48 unità dal gruppo dei bufali necessari ai lavori (dette bestie erano necessarie per trascinare il legname dalle montagne ai luoghi di imbarco).
I giudici inoltre accolsero la denuncia di Giovanni Tallapane da Villa Basilica di Lucca e di Riccardo Maletti, contro Giovanni di Santa Croce (cavaliere protontino di Monopoli e giustiziere reale in Val di Crati e Terra Giordana), il quale aveva agito così come i “familiari” del Turdo ed a sua volta aveva fatto forzosamente prelevare 28 bufali, sottraendoli al trasporto delle travi.
Le concessioni angioine prevedevano la sola esenzione fiscale sul legname calabrese tagliato e trasportato a Roma, mentre è dubbia l’autorizzazione al taglio del legname nelle foreste regie di Calabria ed a titolo gratuito.
Una dettagliata informativa, circa numero e dimensioni delle travi necessarie ai lavori, fu richiesta al cardinale Colonna dalla curia angioina.
La relazione doveva servire ad evitare abusi e danni derivanti da mancate entrate fiscali e per poter controllare che dalla Calabria non venisse esportato legname non effettivamente necessario per i lavori della basilica.
Occorre puntualizzare che la quantità di legname sottratto dai boschi calabresi e destinato ad edifici religiosi fu enorme ed ebbe inizio nel 1305.
La regione calabrese, nel tempo fornì il legname necessario per la copertura del Laterano, della basilica di San Pietro in Roma oltre quella per il Duomo e la basilica di S. Chiara in Napoli.
A queste “donazioni” occorre aggiungere i “prelievi” necessari alle esigenze edilizie e cantieristiche del regno.
Una parziale informazione sulla “deforestazione” operata sulle nostre terre, la si desume dalla nota inviata dal cardinale Colonna alla Curia angioina, dalla quale rileviamo che per la copertura della navata maggiore di S. Giovanni in Laterano, venivano richieste:
-60 “bardones” (travi-catene per capriate), lunghe 11 passi del senato, larghe due palmi ed 1/3 di palmo del senato in una facie e 2 palmi ed 1/3 di palmo del senato in alia facie (quindi in sezione rettangolare da m. 0,53 x 0,46 per una lunghezza di m. 19,66);
-120 “caballi de navi” (travetti), lunghi 5 passi e 3 palmi e larghi “in utraque facie” 2 palmi (lunghi m. 9,60 con sezione quadrata di m. 0,44 x 0,44);
-120 “subcaballi de navi” (traversi), lunghi 4 passi meno 1 palmo ed 1/3 di palmo e larghi 1 palmo ed 1/3 di palmo (lunghi m. 6,85 ed a sezione quadrata di m. 0,29 x 0,29).
Per la copertura del “titulum” (transetto) necessitavano:
-40 “bardones”, lunghi 8 passi 2 palmi e 2 dita e larghi 2 palmi ed 1 oncia (lunghi m. 14,74 e larghi m. 0,46)
-80 “caballi tituli”, lunghi 4 passi e 2/3 di passo e larghi 2 palmi ed 1 oncia da un lato e 2 palmi meno 2 once dall’altro (lunghi m. 8,34 e larghi m. 0,465 x 0,409);
-80 “subcaballi tituli”, lunghi 3 passi e 1/2, larghi 1 palmo ed 1/3 in “utraque facie” (lunghi circa m.6,25 ed a sezione quadrata di m. 0,297 x 0,297);
-40 “claves tituli” (travi-controcatene) lunghe 2 passi ed 1/3 e larghe 1 palmo ed 1/3 (lunghe m. 4,17 e larghe m. 0,279 x 0,279)
-60 “claves de navi” lunghe 2 passi e 1/2 ed 1 palmo e larghe 1 palmo ed 1/3 (lunghe m. 4,69 e m. 0,29 x 0,29 di spessore)
Per la porta maggiore veniva richiesto un “plantonum” (tavola rettangolare) lunga 30 palmi e larga 10 (lunga m. 6,70 e larga m. 2,23).
I lavori di ricostruzione della basilica si trascinarono per anni, fra soste forzate e contestazioni, soprattutto per i lunghi tempi occorrenti al pagamento di legnami estratti su terreni privati e su indugi e rinvii nel retribuire la manodopera, circostanze che i “delegati” del cardinale Colonna trascuravano e parecchio.
Al ritardo nella consegna del legname, concorsero certamente abusi, egoismi, truffe, appropriazioni.
Come sovente avviene in casi simili, la faccenda ebbe sbocco giudiziario.
Joanne Saulus, mastro giurato e Gaudius Romano, giudice, entrambi da Scalea, sulla base di un rendiconto steso da Filippo Venuto e da Pisano Angelo, “magistri” da Scalea, svolsero inchieste interrogando taglialegna operanti nei territori di Scalea, Orsomarso e Verbicaro, allo scopo di acquisire elementi utili per poter stabilire un valore equo del legname già tagliato in foreste e boschi di privati.
Non è da escludere che l’indagine mirasse a stabilire la somma da corrispondere quale indennità per il legname, probabilmente requisito in esecuzione di esproprio disposto dal sovrano o da un suo delegato, secondo spiccio ed usuale modo di procedere della “curia” angioina.
Nell’inchiesta vi fu però un errore di fondo. Dal tenore delle deposizioni dei taglialegna, si evince che in realtà veniva accertato il valore di legname per la cantieristica (gli artigiani in veste di testimoni erano pratici di legname “corto” di valore notevolmente inferiore), produzione tipica dei boschi pertinenti ai paesi d‘origine o residenza dei testimoni citati, i quali, sicuramente, erano digiuni degli approvvigionamenti necessari per la costruzione di grandi edifici per i quali era necessario legname lungo e quindi più pregiato.
Ciò orientò erroneamente i giudici, quel tanto bastevole perché alle travi occorrenti per il tetto di S. Giovanni (delle quali è stato fornito e reso noto elenco e dimensioni), fosse attribuito l’irrisorio valore di 10 once.
La “ingiusta sentenza” era stata sicuramente determinata dall’erroneo apprezzamento dei periti circa il valore del legname. Al “deprezzamento” contribuì notevolmente la circostanza che, per evitare i danni da trascinamento, le travi venivano consegnate allo stato “grezzo” per essere poi squadrate e rifinite una volta giunte nel cantiere di S. Giovanni.
Riguardo la segnalata “vicinanza” all’abitato di San Donato dei boschi interessati al taglio, non significa che i territori fossero ubicati negli immediati dintorni del “Castrum Sancti Donati”.
E’ probabile che, per ragioni contingenti, i villaggi (all’epoca costituiti in grandissima parte da capanne di pali e frasche), venissero insediati nei pressi dei ”cantieri”, per essere poi abbandonati alla fine dei lavori e ricostituiti ove era necessario.
Ciò non deve stupire, all’epoca era questo un modo di procedere usuale e ne da testimonianza la produzione letteraria medievale che nel regno del sud annovera molti “feudi exabitati”, ossia privi di popolazione.
Ciò accadeva perché erano frequenti le migrazioni, originate da ragioni di lavoro o dettate da guerre o miseria.
Talvolta non era estranea la convenienza. Vari feudatari concedevano molteplici agevolazioni (specie di natura fiscale) allo scopo di popolare le loro terre (attorno al XIII secolo il vicino centro di San Sosti è nato ed è stato popolato con detto metodo, sottraendo abitanti e territorio a San Donato e ad altri centri confinanti).
I sandonatesi in una sola occasione furono protagonisti di una migrazione di massa.
La circostanza la tramanda il sacerdote don Domenico Cerbelli nel suo volumetto stampato sulla fine dell’Ottocento, dove l’autore testimonia un episodio migratorio del XIII secolo che vede protagonisti gli abitanti di San Donato, i quali abbandonarono il vecchio abitato per farvi ritorno dopo decenni, mutando però sito.
Il “castrum” rimase deserto visto che la quasi totalità degli abitanti s’erano trasferiti nel territorio di Artemisia (Sant’Agata d’Esaro) per lavorare in quelle miniere.
E’ da dire che la deforestazione operata nelle nostre montagne, al di la delle misere paghe, delle durissime condizioni di lavoro e qualche decesso da infortunio, ai calabresi (ed ai sandonatesi in particolare), non lasciò molto, sebbene la qualità delle alberature e la loro pezzatura “oltremisura” avessero prodotto ricchezze, finite però in terre lontane ed in tasche differenti da quelle dei compaesani.
Ciò non deve fare meraviglia, la circostanza è antica e s’era gia verificata con gli invasori greci e romani per ripetersi poi nei secoli successivi.
Nel corso della ricerca, su alcuni testi ho trovato citato il termine “forgia” riferito al territorio di San Donato.
Il vocabolo indicava un piccolo impianto di fonderia, la cui dimensione era variabile ed adeguata alla ricchezza delle vene minerali dalle quali veniva alimentata.
Nel nostro territorio, in tempi antichi e presumibilmente anche nel XIII secolo, la forgia non era un impianto fisso ma seguiva l’itinere dei minatori e veniva costruito la dove erano ubicate le vene di metallo.
Luogo preferito era sempre nei pressi di fonti d’acqua che nel territorio sandonatese sono abbondanti e numerose.
Questo “nomadismo degli impianti di fonderia”, era in parte determinato dalla particolare orografia delle nostre terre, prive di quella viabilità che avrebbe facilitato il trasporto dei materiali escavati dai quali estrarre i minerali.
La ricerca dei metalli da noi ha radici millenarie. Tradizione e storia la fanno risalire alle prime tribù di lingua osca, giunte sull’Appennino calabrese attorno all’XII° secolo a.C.
Dette popolazioni, durante la migrazione avevano affinato la ricerca e l’arte della lavorazione dei metalli, questo attraverso i contatti con popolazioni nomadi presenti negli altipiani dell’Anatolia e la cui eccellenza era rappresentata dalle lavorazioni a lamina (od a foglia) dei metalli “teneri” e dalla granulazione dell’oro.
San Donato, nella letteratura storica è conosciuto come “conca dei metalli”, ciò per la diffusione e la facilità di reperimento di minerali di rame ed oro (in minore quantità ferro) oltre al sale (filoni di salgemma) ed alle argille ricche di sostante chimiche (ossidi, cloruri, solfuri).
Popoli antichi praticarono escavazioni nelle terre sandonatesi, continuate nei secoli e ad opera di tutte quelle genti, in transito o stanziali in Calabria, quali greci, romani, barbari, normanno-svevi, francesi, spagnoli, ognuna delle quali ha estratto e portato a casa ricchezze del sottosuolo (e non soltanto quelle), lasciando le popolazioni locali “in camicia”, quando è andata bene, o “nudi”, come è spesso accaduto.
Per orografica e “giovinezza geologica”, il territorio sandonatese non ha le caratteristiche che ad altri distretti hanno consentito di incorporare densi ed abbondanti giacimenti minerari.
Di conseguenza, le escavazioni, più che su “giacimenti”, sono avvenute su “venature” di metalli insinuate in un sottosuolo calcareo e roccioso.
A questa “povertà”, va aggiunto un millenario sfruttamento il cui effetto primario è stato quello d’aver ridotto ed in qualche caso esaurito le vene metallifere per loro natura disperse sul territorio, caratteristica quest’ultima che ha indotto il “nomadismo” degli impianti di fonderia (le “forge” cui abbiano accennato).
Nonostante detti “aspetti negativi”, il territorio sandonatese è sempre stato al centro dell’interesse di coloro che con l’estrazione e la lavorazione dei metalli ci campavano. Sulle notizie inerenti le miniere dei tempi più antichi, dobbiamo accontentarci degli scarsi accenni forniti da cronisti greci e romani.
Notizie scarne le abbiamo anche sul periodo delle invasioni barbare.
A partire dalla dominazione bizantina, alla quale nel tempo sono succedute quelle di genti normanno-sveve e francesi, la storiografia ci fornisce notizie più dettagliate.
Agli inizi del XIV secolo, un documento menziona tale “Joannes Tallapane de Villa Basilice comitatus Lucani”, quale “magister” delle forge di San Donato e Mercurio.
Siamo nel periodo in cui la casa d’Angiò ha stabilizzato il proprio dominio sulle terre di quel che sarà il Regno di Napoli e la curia angioina, così come molte altre case regnanti europee, ha dovuto ricorrere ai mutui erogati delle potenti famiglie di mercanti e banchieri (nel nostro caso vennero privilegiate quelle toscane).
A fronte dei prestiti i re angioini hanno ceduto a titolo di rimborso e risarcimento il godimento di attività economiche, quali lo sfruttamento di risorse di boschi e miniere e concessione di appalti su tasse e gabelle.
Fra le molte “signorie” presenti in Calabria, ci interessa da vicino quella della famiglia pistoiese Turdo, feudatari e signori di San Donato.
Le famiglie mercantili toscane con interessi nel regno del sud, come d’uso avevano inviato sul posto loro agenti i quali s’erano attivati per richiamare quelle figure professionali (che per questioni “di lingua, conoscenza e fiducia personale” non potevano essere reperibili in loco), alle quali assegnare la gestione delle attività di reddito quali “riscossione di tasse e gabelle, amministrazione della giustizia e tutela dell’ordine costituito, taglio e lavorazione del legname, ricerche minerarie, escavazioni e gestione delle fonderie”.
Il citato Tallapane di Villa Basilica di Lucca, era una di queste figure e non sarà l’unica perché, in quegli anni, la Calabria venne letteralmente invasa da manodopera proveniente anche dal contado di Pistoia.
L’impiego della manodopera “straniera” aveva come scopo principale la “modernizzazione” della tecnica di scavo e lavorazione dei metalli, settore che la curia angioina riteneva arretrato ed anche poco remunerativo sotto l’aspetto fiscale.
Ciò non toglie che anche prima dell’arrivo dei “toscani”, la “scarsa” attività mineraria una qualche forma di utile alle casse regie riusciva ad assicurarlo (citiamo l’imposizione delle decime sul prodotto finito e l’obbligo della sua cessione ai magazzini della curia), anche in presenza di oggettive e numerose difficoltà e delle inevitabili frodi.
Scrive il Caggese “.fin dai tempi di Carlo I, il territorio del regno e specialmente la Calabria, vide la presenza di imprenditori, tanto temerari quanto rapaci, che tormentarono la regione con l’accordo ed il cointeresse della Corte. Nel 1274, in Longobucco viene scavata una vena d’argento e la Curia ne trae subito profitto.
Nel 1274, si scava nei dintorni di Reggio Calabria, e il re si riserva la terza parte delle risorse (ferro, argento e piombo) che quelle miniere potranno dare.
Intorno agli stessi anni si ha notizia di qualche attività nel giustizierato della Valle di Crati (zona amministrativa che incorporava anche le terre di San Donato).
Sulla presenza toscana in terra calabrese annota Romolo Gaggese: “Ma è sotto il regno di Roberto che, per effetto specialmente della forte immigrazione di capitali e di speculatori toscani, la industria estrattiva acquista qualche consistenza ed offre argomento di qualche speranza all’erario ed al Re”.
La presenza di imprenditori e speculatori toscani fa si che tutte le antiche miniere della Valle del Crati vengano riattivate e che ai lavori di ricerca si uniscano quelli della siderurgia.
La Curia regia, di norma, concede il permesso di scavare miniere e di “conflare forgias” ponendo condizioni.
Fra detti vincoli risaltano: “l’obbligo per i concessionari dell’annuo tributo per ogni tipo di forgia” (di media un’oncia e mezza di metallo fine) “e che il ferro, l’acciaio ed in genere tutti i metalli scavati e approntati per la vendita, non escano mai e per alcun motivo, dalla zona di controllo del monopolio di Stato”.
A questo proposito, nel 1317, Roberto richiama l’attenzione dei Giustizieri sulla legislazione delle miniere e sulla lavorazione di metalli, anche quelli importati.
Segnala il sovrano: “alcuni mercanti e speculatori, sia indigeni, sia stranieri (specialmente gli stranieri), senza domandare ed ottenere dalla Curia regia apposita licenza, scavano miniere nel territorio dello Stato, e per il materiale estratto e per dell’altro che essi trasportano da regioni estranee al Regno costruiscono e mettono in azione delle importanti officine, senza alcun rispetto per i diritti del fìsco”.
Sottolinea che: “quando il ferro è stato opportunamente lavorato, essi lo vendono direttamente a chi ne ha bisogno, esportandolo di provincia in provincia, cosa assolutamente intollerabile. Bisogna, quindi, che si faccia un censimento rigoroso in tutto il Regno, affinchè risulti in modo ben chiaro a qual titolo siano attualmente gestite le miniere e le officine, se cioè siano, tutti gli imprenditori, in regola con le disposizioni legislative in vigore”.
Le concessioni assumono varie tipologie secondo che si tratti di scavare miniere o di licenza per la lavorazione di ferro importato.
Le autorizzazioni regie risultano interessanti, sia per la loro natura, sia per le particolari disposizioni.
In entrambe le tipologie di concessione viene comunque regolato il lavoro dei salariati e viene altresì specificata la loro condizione giuridica, ritenuta “speciale”.
La “singolarità” dei contenuti degli atti di concessione regia, la ricaviamo da alcuni esempi riportati dal Caggese.
Scrive lo storico: “Nel marzo 1310, Giovannuccio e Guiduccio Passavante, del contado lucchese, avendo precedentemente stipulato un accordo con Filippo Turdo da Pistoia, signore del castello di S. Donato, e con Amicuccio de Nomicisio signore del castello di Mercurio, entrambi in Calabria, per il quale ottengono il terreno necessario e l’acqua e la legna in quantità sufficiente per impiantare delle forgie domandano al Re la licenza necessaria, promettendo di dare ogni anno alla Curia un diritto fìsso di dieci oncie, a datare dal giorno in cui essi avranno dato principio al “ministerium ferri”
Il Re accorda la licenza alla sola condizione che tutto il ferro sia venduto o alla Curia od a coloro i quali dalla Curia saranno indicati”.
Non una parola circa la condizione dei lavoranti da assoldare, segno manifesto che essa non può in alcun modo essere diversa da quella garantita dal diritto comune. Ma nella maggior parte dei casi quella condizione è minutamente determinata.
Ecco, infatti, la concessione fatta il 22 luglio 1317, allo stesso Giovannuccio, stipulante in nome suo e in nome dei suoi soci. Il concessionario, al solito, si è già preventivamente accordato con Nicola de Sirino V, milite e ciambellano regio, signore del castello di San Serino, non soltanto per impiantare delle forgie, ma anche per a indagare “mineras ferreas” nel suo territorio e gestire le une e le altre per dieci anni.
Nel domandare, poi, al Re la necessaria licenza, promettendo di dare alla Curia un diritto fisso di dieci oncie all’anno e di consegnare, in vendita, alla Curia stessa tutto il prodotto ottenuto, il concessionario stipula altresì degli accordi speciali riguardanti gli operai che saranno addetti alle forgie ed alle miniere.
Essi sono esenti dalla prestazione di qualsiasi servizio e dal pagamento di qualsiasi imposta, e, quanto alle vertenze civili, non possono essere tradotti davanti ad alcun giudice ordinario o straordinario del Regno, ma soltanto davanti al tribunale dell’imprenditore.
Se un operaio fugge il concessionario e i suoi agenti possono arrestarlo e tradurlo dinanzi al più prossimo funzionario regio, il quale ha l’obbligo di costringerlo a ritornare al lavoro e di punirlo.
Lo Stato, dunque, investe di autorità giudiziaria il concessionario, e considera dovere dell’operaio salariato lavorare anche senza sua volontà, e dovere suo il prestare aiuto al concessionario che fosse eventualmente abbandonato dagli operai”.
Altra concessione mineraria è autorizzata in favore di Nesio di Bartolomeo da Pistoia, e soci, nel gennaio 1319.
IL Nesio succitato non era un personaggio da poco conto ma uno dei figli di Bartolomeo degli Ammannati, ricco ed influente mercante e banchiere pistoiese, con interessi nel sud Italia ed in Calabria in particolare.
La “parentela” la ricaviamo da un verbale di un “consiglio d’amministrazione” del 9 febbraio 1302, riportato dallo Zaccagnini e tenuto dai delegati di una società degli Ammannati che agiva in Bologna.
Dal verbale risulta la presenza di Martinus Iacobi, Nese, Thotus di Bartolomei de domo Ammammatorum.
Circa la concessione di cui è cenno, scrive il Caggese:
“Il concessionario, già, naturalmente, d’accordo con Filippo Turdo per alcune terre minerarie in tenimento di S. Donato nella Valle dei Grati, circa la riattivazione di antiche forgie abbandonate e la escavazione di miniere nuove, per 25 anni, domanda ed ottiene dalla regia Curia la licenza relativa.
La società pistoiese pagherà per i primi due anni, 15 oncie all’anno, in ragione di sette oncie e 15 tarì a prò cluobus malleis e in seguito, per tre a focinas e tre magli, 10 oncie all’anno, salvo a pagare per ogni nuovo maglio tre oncie e 10 tari all’anno, se altri se ne metteranno in azione.
Tutto il ferro andrà venduto alla Curia, ed a lei saranno dovuti tutti i dazi e le gabelle solite a pagarsi dai venditori di ferro.
Quanto agli operai, essi saranno, s’intende, esenti dai servigi e dalle imposte, ma saranno soggetti alla giurisdizione civile della società concessionaria; se, poi, fuggono, per cento giorni e per cento notti potranno essere, dovunque. ricercati e ripresi.
La società non fece buoni affari, tanto che dopo appena un anno e mezzo, Nesio di Bartolomeo fu costretto a cedere ogni suo diritto a Filippo Turdo, e questi si indusse a gestire per conto proprio le miniere di S. Donato, subentrando all’antico socio in tutti i doveri e gli oneri verso la Curia.
Altri pistoiesi, Barone Ammannati e soci, lavorano nel tenimento del castello di Agelliri, esso pure nella Valle del Grati, il cui signore è Giovanni Conte di Gravina. Anche essi vogliono ricercare delle nuove miniere e impiantare delle forgie, o ne ottengono il consenso dal Duca di Calabria, nell’aprile 1321, promettendo di dare, secondo il solito tre oncie e 15 tari per ogni maglio che sarà in azione e di depositare tutto il ferro prodotto nel fondaco regio più prossimo.
È fatta anche ad essi la speciale concessione di esercitare la giurisdizione civile su gli operaie la facoltà di ricercarli e catturarli, se fuggono, per cento giorni e cento notti, servendosi, ove occorra, dell’aiuto dei funzionari regi.
Ma anche questa società, come quella rappresentata da Nesio di Bartolomeo, deve chiudere in gran fretta i suoi conti.
Non ostante la concessione ottenuta, non ostante il favore del fratello del Re, il suo lavoro non è proficuo, sia per il turbine di guerra che avvolge spesso quelle contrade, sia per altre cause ben ponderate deve domandare alla Curia di essere sciolta dai suoi obblighi. Evidentemente, la concessione sarebbe stata goduta se le miniere fossero state fruttifere”.
Evidentemente non era il solo territorio di San Donato a patire per la “poca produttività” delle miniere.
Alla resa “scarsa” ed ai proibitivi costi di gestione, oltre che la “povertà delle vene”, ha contribuito e parecchio la infelice conformazione del territorio, circostanza che ha rappresentato il maggior ostacolo alla realizzazione di viabilità che avrebbe facilitato i trasporti.
Tralasciando la romana via Popilia (realizzata sul litorale e nelle zone piane), la restante viabilità calabrese insisteva su territorio alto collinare o montano e sin dal periodo bizantino constava in sentieri e mulattiere, quindi una rete di “microviabilità” precaria che doveva forzosamente adattarsi alla poco aggraziata morfologia del territorio.
Nei periodi successivi alla dominazione romano-bizantina e fino ai Borboni, lo “Stato” non si occupava di “grande viabilità” (la funzione di costruzione e manutenzione stradale era affidata ai signori locali, i quali avevano ben pochi interessi a quel “bene comune” rappresentato dalle vie di comunicazione).
A questo disinteresse contribuirono di certo i campanilismi, le gelosie, i contrasti reciproci e verso la corona, posti in essere dai baroni, tutte circostanze e condizioni che influirono e molto sulla mancata realizzazione di una decente struttura viaria.
Il problema della rete stradale, quale ostacolo allo sfruttamento delle miniere, dal XIV secolo venne preso in considerazione solo da alcuni “baroni illuminati” e da pochi appartenenti all’aristocrazia terriera.
Alcuni signorotti e pochi possidenti, con visione empirica e locale, curarono e svilupparono il preesistente ed antico sistema viario, totalmente costituito da “mulattiere” e “violi”, precarie viuzze campestri percorribili con bestie da soma, ma non da carri ed adattate all’orografia del territorio con percorsi di crinale, tesi ad evitare impluvi ed accorciare distanze).
Fra gli “innovatori”, Filippo Sangineto signore di Altomonte e delle terre di San Donato, il quale tracciò una serie di sentieri attraverso i quali raggiungere più agevolmente le terre coltivate, i pascoli, i boschi e le strutture di produzione, generalmente mulini e frantoi, nonché le miniere di salgemma di Lungro e le ancora attive “forge di San Donato”, all’epoca ubicate in contrada “Lògge”.
Fin qui vicende e memorie nelle quali, mi pare, insista un esile filo che collegava una città ricca di storia ed arte, quale è Pistoia, ad un piccolo insediamento abbarbicato sui crinali dell’appennino calabro-lucano e che ancora oggi occupa le terre che furono dell’antichissima Ninaja, toponimo poi mutato in San Donato attorno al V-VII secolo, epoca in cui la regione era ancora identificata come “terra bruzia”.
Le ricerche sin qui condotte hanno consentito di trarre elementi che possono confermare l’esistenza nel contado pistoiese di famiglie dal cognominale Turdo.
Qualche incertezza sulla circostanza che il “pistoiese” Filippo Turdo, citato nei registri angioni, possa essere il Filippo membro della famiglia Tonti.
Di contro è storicamente provato che taluni componenti di una famiglia pistoiese hanno avuto titolo feudale sulle terre di San Donato ed hanno raggiunto grandi dignità presso la corte angioina.
Gli “indizi” emersi, mi hanno persuaso che i “signori delle “terre et castelli sancti donati” possano con buona approssimazione identificarsi in Filippo Tonti e nel figlio Jacopo, in ciò confortato da resoconti di storici pistoiesi, i quali riportano che nel XIV secolo detta famiglia era “in affari” con la corte angioina.
Ritengo molto verosimile la distorsione del cognome Tonti, nella formula “latino-napoletana” Tundo, poi trascritta Turdo e che il fatto possa attribuirsi alla pessima scrittura di un amanuense, ovvero da imputare alla altrettanto pessima interpetrazione dello scritto da parte di qualche storico.
L’autore esprime riconoscenza per:
-la Direzione dell’Archivio di Stato di Pistoia;
-la Direzione della Biblioteca Forteguerriana;
-la Direzione dell’Archivio e Biblioteca Capitolare,
per la benevolenza con la quale è stato accolto nei rispettivi istituti.
Rivolge un grazie particolare;
alle signore:
-Maria Ferracane (Archivio di Stato di Pistoia),
-Michaelangiola Marchiaro (Archivio e Biblioteca capitolare di Pistoia),
-Sonia Bonacchi, Simonetta Ferri, Giovanna di Blasio (Biblioteca forteguerriana),
ed ai signori:
-Daniele Zanoboni e Giovanni Brancatisano (Biblioteca Forteguerriana),
persone che nel corso delle ricerche si sono mostrate disponibili e benevole nel prestare la necessaria assistenza.
Bibliografia
Barni C.; Le grandi famiglie pistoiesi, mercanti e banchieri; B.C.C. Chiazzano Pistoia 1992;
Bisignani Raffaele; San Donato di Ninea; in Apollinea Nov./Dic. 1997 ed in Calabria letteraria 1979;
Caggese Romolo; Roberto d’Angiò e i suoi tempi; Firenze 1921;
Camera Matteo; Annali delle due Sicilie; Napoli 1841;
Cerbelli Domenico; Monografia di Mottafollone; Napoli 1857;
Cozzitorto don Francesco; Giornale parrocchiale di San Donato di Ninea, anno 1991;
Gaglione Mario; Lignamina necessaria de Calabria ferenda. Interventi angioini per la ricostruzione di San Giovanni in Laterano (1308), in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», nr. 128 del 2005.
Monaco Vincenzo; San Donato di Ninea, Velletri 1987.
Tognetti Sergio; Mercanti e banchieri pistoiesi nello spazio mediterraneo; Miscellanea; Soc. P.se di Storia patria; Pistoia 2008
Zaccagnini Guido; Ancora dei banchieri e mercanti pistoiesi a Bologna e altrove; Pistoia 1934
“Minucciu” è il diminutivo col quale nel suo paese d’origine è conosciuto Domenico BUONO, nato in San Donato di Ninea nel 1945 e li cresciuto e vissuto fino al 1963, anno in cui segue la sorte di tanti giovani dell’epoca ed emigra nell’agro romano, al seguito di uno zio materno che lo impiega presso un’azienda agricola.
Dopo pochi mesi prosegue verso il Piemonte e si stabilisce in Venaria Reale (TO) ove lavora nel settore metalmeccanico, occupazione che mantiene fino alla crisi economica del 1965. Nello stesso anno viene arruolato nella Polizia, Corpo nel quale percorre la carriera fino alla qualifica di Commissario r.d.s.
Ha prestato servizio in varie regioni della penisola ed attualmente risiede in Pistoia, località ove ha raggiunto il congedo.
Scrive su storia tradizioni e vicende del paese natale.
Nel 2012, in Pistoia, ha pubblicato il volume di racconti “Vita sandonatese, fra pàrmarij e storij”.
Sempre nello stesso anno 2012 ha anche dato alle stampe “Parole alla sandonatese”, studio sull’etimologia del dialetto paesano.
Nel 2014 ha pubblicato “Ninaia” libro di ricerche sulle vicende dell’antica Njnaja, la polis enotre sulle cui terre, secoli dopo, sarebbe sorta San Donato di Ninea.
Nel 2015 ha pubblicato “Vita sandonatese, fra pàrmarij e storij, parte seconda”.
Nel 2015 ha pubblicato “Tànnu” e “Tàntu ppì ddì, due opuscoletti su taluni degli usi, costumi e tradizioni del paese natio.
Nel 2016 ha pubblicato “Stozza, grasti e shjishjuli”, raccolta di “frammenti di storia sandonatese”.