Luigi Bisignani
Aspettando giorni MIGLIORI Mìnuccièddhu bbì cùntadi:Cùmu ghèramu Cènt’ànni àrrìètu
Mìnuccièddhu bbì cùntadi.
In un articolo on line su “Archivio Sibari”, Michele Sampietro dà notizia che, nel “Dizionario corografico dell’Italia, opera illustrata da circa 1000 armi comunali” pubblicato in due volumi nel 1878, opera notevole di Amato Amati, si trovano notizie e curiosità su tutti i paesi, le città, le provincie e le regioni dell’Italia unita.
Sfogliando le ingiallite pagine, il Sampietro dice d’essersi imbattuto nella “descrizione dei calabresi”, che l’Amati riporta pari pari da un altro autore di quel periodo, il salernitano Matteo De Augustinis, il quale, descrivendo l’indole, i costumi, il carattere dei calabresi non ne dà proprio una immagine “edificante”.
I pochi pregi elencati, affondano nei difetti, taluni gravissimi e sotto certi aspetti riscontrabili ancora oggi.
A dar credito a quel che scriveva il De Augustinis, coloro che in quel periodo si avventuravano dalle nostre parti, oltre a un notevole coraggio, dovevano essere anche armati fino ai denti.
Propongo lo scritto indicato dal Sampietro per una riflessione sui calabresi di quel tempo e circa la permanenza o meno, ancora oggi, delle virtù e dei difetti evidenziati più di cento anni fa, sull’essere un calabrese secondo la descrizione citata ed appresso riportata in corsivo
L’indole calabrese è troppo proverbialmente conosciuta: fervida, iraconda, testarda.
Nessun ingegno eguaglia quello del Calabrese, niuno è più insuperabile di lui, non v’è vendetta che alla sua si rassomigli.
I Calabresi non dimenticano e non perdonano, l’ospitalità solo sospende o ritiene il ferro della vendetta, e sia nei vizi sia nelle virtù, non hansi posa se non ne abbiano varcati gli ultimi estremi.
E siccome ho toccato dell’ospitalità è giusto che dica tutto: l’ospitalità del calabrese ha veramente dell’ideale e del sublime; essa è la prima e la più venerata delle sue religioni; dopo questa vien quella dell’amicizia.
Sopra entrambe però sta la vendetta, come il fato stava sopra tutti gli altri dei pagani.
Ma ciò che dicesi dell’ospitalità non può certo dirsi della sua buona fede; e quanto alla simulazione, essa è nei modi di esecuzione anzi che nel pensiero e nel consiglio dell’opera.
I Calabresi in generale sono altamente rischiosi, essi non temono il pericolo, e vi si trastullano e ne hanno d’uopo come di un pabulo alla loro bile.
Gelosissimi della donna, dello stilo e dello schioppetto. Guai a chi li tocchi o a chi gli agogni.
Non v’è potenza di priego o di persuasione valevole a distornare la risoluzione di questa gente quando essa è presa veramente ed il giuro è stato fatto nel fondo del suo cuore.
Il puro calabrese è parco e frugale, però avido ed imperioso: egli vuol comandare, e quando non gli riesce di comandar fuori, comanda fieramente in casa, e se in questa pur manchi la materia del comando, comanda a sé stesso, al suo corpo, ai suoi bisogni, ai suoi più forti appetiti e desideri.
Il perché la donna è in Calabria com’era in Roma, né più né meno; ella e i figliuoli sono le cose più care di questo mondo, ma a condizione di una passiva e costante obbedienza.
E queste donne calabresi, ardite e indomabili quanto l’uomo, non hanno altro al mondo che il loro amante o il loro sposo; per essi vivono e respirano, per essi affrontato ogni fatica ed ogni pericolo.
Fiero del suo IO, il Calabrese è poco devoto, poco cordiale, giammai rassegnato; egli cede ma non si costerna, finge di deporre il suo pensiero, ma per tornarvi a miglior tempo.
Neppure i grandi tremuoti valgono a fargli abbandonare la sua stanza e i suoi disegni.
Le abitudini e i misfatti de’ calabresi sono in armonia con la sua natura; la sua vita non ha riposo: né é poi altrimenti della sua persona; la sua taglia è mezzana, l’agilità grandissima, bruna e contratta la fisionomia, nero l’occhio e scintillante.
Aspro ai modi, inciso alla favella, vorrebb’esser compreso senza parlare, ed a volo e perfettamente obbedito e secondato; alla seconda parola, al primo mancamento, il sangue gli bolle e la bile di altera e travasa.”
Mà, àri juòrni ì goj, abbèru sùmu ancòra àccussì?
Novembre 2020 Minucciu