Per favore un po’ di pane

Luigi BisignaniPremetto che leggo molto e sono sempre alla ricerca di lettura,tra queste ricerceche ho trovato questo  racconto di Pasquale Gianninno e voglio condividerlo con voi

di Pasquale Giannino
https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/03/03/per-favore-un-po%E2%80%99-di-pane-di-pasquale-giannino/

Sono passati dieci anni e sembra ieri. Anzi no, a pensarci bene mi sembra un secolo… Avevo preparato ogni cosa nei minimi particolari. Mio padre lo avevo piazzato presso la commissione, avrebbe dovuto fotografare il momento clou della cerimonia: era tutto concentrato vicino alla schiera dei baroni. Mio fratello, armato di videocamera, aveva il compito di immortalare l’intera sequenza; ai miei amici avevo affidato l’incarico di organizzarmi un tifo da stadio. Sullo sfondo l’imponente scritta: “Aula Magna Giovanni Agnelli”.

“Ti vedo preoccupata,” dissi a mia madre “c’è qualcosa che non va?”

“È per zio Carlo, sarebbe dovuto arrivare da un pezzo…”

“ È partito ieri sera?”

“Ma no, è già qui da un paio di giorni. Si è fermato a casa di amici, a Pinerolo.”

“Tranquilla, eccolo, sta arrivando…”

Da ragazzino, quando i miei compagni mi parlavano dei loro zii, e li dipingevano come dei vecchi rompiscatole, io pensavo che ero fortunato ad averne uno che somigliava più a un fratellone che a un parente anziano. Ha solo nove anni in più di me. Poi, faceva parecchie cose dalle quali io mi sentivo escluso, un po’ per carattere un po’ per via di una disavventura che ebbi da piccolo. All’età di sette-otto anni fui colpito da una febbricola che non mi passava mai. Mi portarono dai maggiori luminari della zona: nessuno ci capiva niente. A un certo momento, un pediatra mi consigliò di ricoverarmi nel suo reparto. Fui sottoposto a ogni genere di accertamenti ed esami. Mi avevano segregato in una sorta di sgabuzzino. C’era mio padre a tenermi compagnia, non mi mollava neppure un minuto. Di notte cercava di riposare per qualche ora su una sdraio. Ogni giorno chiedeva al primario se ci fossero novità, la risposta era sempre uguale: stiamo analizzando i dati… Dopo un paio di settimane si decisero a portarmi da un otorino. Era un vecchio basso e tarchiato, un tipo rozzo e dai modi sbrigativi. “Spalanca la bocca e tira fuori la lingua” mi disse. Eseguii l’ordine senza fiatare. “Che tonsille brutte!” ringhiò. D’un tratto sentii una mano salata che mi premeva la lingua, e una paletta di ghiaccio che mi schiacciava la gola: se non fossi stato digiuno dalla sera prima avrei vomitato. “È da trent’anni che faccio questo lavoro, non avevo mai visto delle tonsille infami come queste.” “Si spieghi meglio” disse mio padre. “Sono due tonsille nascoste, non si vedono neanche. A guardarle sembrano sane, e invece sono marce, piene di pus… Bisogna operare, non c’è altro tempo da perdere.”

Dopo l’intervento ritornai a scuola. Non volevo crederci, ero a casa da mesi… Ogni tanto veniva a trovarmi Lucia, la mia “fidanzatina”. Mi passava i compiti, leggevamo qualche storia di Topolino, guardavamo insieme i cartoni… Ma le mie giornate erano interminabili. Finalmente, ora, potevo tornare a vivere una vita normale. In realtà c’era un problema che mi sarei portato appresso per anni. Avevo paura delle sudate. Temevo che bastasse un piccolo spiffero, una impercettibile corrente d’aria per farmi ammalare… Così, quando i miei compagni giocavano a calcio, a pallavolo, correvano… io li osservavo in disparte, senza invidia. Con ammirazione. Ebbene, mio zio rappresentava il modello di ragazzo che mi sarebbe piaciuto diventare: era uno sportivo, giocava a tennis, aveva un sacco di amici…

“Pensavo che non saresti venuto” gli dissi. “Ma come! Non dirlo neanche per scherzo. Non mi sarei perso la laurea del mio nipotino per nessuna ragione al mondo.” “Nemmeno se giocava l’Inter?” “Beh, se giocava l’Inter…”

“Posso avere un po’ di pane?” chiese mio zio.

“Velamente, signole, qui non abbiamo pane” rispose la ragazza con gli occhi a mandorla. “Se vuole posso poltalle dei glissini…”

“Zio, che figura mi fai fare…” dissi “non sai che in Cina il pane non si usa?”

“Ma insomma, con tutti i ristoranti che ci sono a Torino… Poi, tutta ‘sta roba fritta…”

“Carlo, il meglio deve ancora venire” interloquì Lorenzo. “Ha mai provato il gelato fritto?”

“Ah, qua friggono pure i gelati… Per quanto mi riguarda possono darmi anche le aragoste e il caviale. Resta il fatto che io voglio il pane.”

“Dai Lorenzo,” dissi “stasera lo portiamo al Manhattan…”

“D’accordo” rispose il mio amico. “È la tradizione…”

Il Manhattan era il nostro locale preferito. Si trovava in un quartiere fuorimano e un po’ squallido. Non c’entrava nulla coi portici, le suggestive piazze del centro, il fascino misterioso della collina… Ma neppure noi avevamo niente da spartire con quei tipi alternativi che lo frequentavano. Là dentro gli esami, il piano di studi, la tesi potevano andare a farsi fottere… Ma il bello era proprio questo: per una sera ci dimenticavamo di essere dei bravi ragazzi. Il giorno seguente si ricominciava. Miko era un mago del computer, alle simulazioni pensava lui. Clamoroso fu il mio esame di controlli automatici. Se ti azzardavi a dare lo scritto – tre ore di calcoli allucinanti – praticamente non avevi scampo. C’era la possibilità di andare subito all’orale con una tesina: si trattava di simulare il controllo di un braccio meccanico. Il programma bisognava scriverlo in C. Io a quei tempi ero il più scarso in queste faccende, non avevo neanche dato fondamenti di informatica. Ebbene, studiai un po’ di teoria dei sistemi, scrissi quattro fesserie, ci incollai le curve del buon Miko e mi presentai all’appello: ventisette… Lorenzo, invece, era il nostro procacciatore di appunti. C’erano alcuni corsi – teoria dei circuiti elettronici e campi elettromagnetici in particolare – in cui il docente, dopo mezzora, aveva già riempito le lavagne di formule e conti mostruosi. Insomma, in quei casi la frequenza non ti aiutava molto. Alla fine del semestre, ti conveniva rivolgerti a qualche secchione. Era una categoria abbastanza cospicua nelle aule del politecnico. Sto parlando di quei personaggi che arrivano con un’ora d’anticipo per occupare le prime file, dopodiché sfoderano l’armamentario che permette loro di non perdersi neanche una virgola. Poi vanno a casa, riascoltano tutta la lezione, la trascrivono parola per parola, si soffermano sui punti più oscuri… Li riconosci facilmente: se vedi un tale con la faccia bianca come quella di un cadavere, gli occhiali a fondo di bottiglia, la calvizie avanzata nonostante i vent’anni, è senz’altro uno a cui puoi chiedere gli appunti. I migliori erano quelli che riusciva a procurare Lorenzo. Io, infine, andavo a sentire gli orali per segnare le domande più frequenti. Registrai un dato incredibile: il numero dei quesiti più ricorrenti per una data prova era al massimo di qualche decina; per di più, c’erano alcuni professori che ripetevano le stesse domande sempre nel medesimo ordine, in altre parole potevi capire quale sarebbe stata la successiva… Dopo l’esame, una serata al Manhattan era il miglior modo per festeggiare il nostro successo di squadra. In quel locale respiravi un’aria di libertà totale: le pareti erano piene di pensieri e colori, chiunque poteva lasciarvi il segno del proprio estro. Ma il momento più divertente era la pizza: avevamo l’abitudine di ordinare una teglia enorme, e di farcela condire per settori, personalizzati secondo il gusto di ognuno. Ovviamente, chi finiva prima aveva il diritto di sconfinare…

“Io sono rovinato,” mi fa Bruno “a cinquant’anni chi vuoi che mi assuma? Tu sei ancora giovane, vattene da qui, vattene finché sei in tempo…”

“Non è tanto semplice, neanche per me. Ieri ho fatto un giro in internet: cercano solo neolaureati a progetto… Capisci? Di gente con esperienza non gliene frega un tubo!”

Ormai scendo di rado in laboratorio. Passo gran parte del mio tempo in ufficio appiccicato a internet, nella speranza di trovare qualche opportunità di lavoro, possibilmente nel mio campo: le comunicazioni wireless. Master, corsi di formazione, stage ne trovi a migliaia. Di offerte per ingegneri senior neppure l’ombra. “Se ne vada all’estero,” mi ha detto il mio salumiere “il ragazzo di mia figlia se n’è andato in Francia. Sa quanto guadagna? Quattromila euro netti al mese…” Già, andarmene all’estero… Certo, dopo diciannove anni vissuti in Calabria, gli studi a Torino, un anno di apprendistato nell’Etna valley, il ritorno nel ricco e opulento nord… dopo tutto ciò non mi rimane che fuggire all’estero.

“Che tristezza questo laboratorio” dice il collega con un gesto di rassegnazione. Gli apparati sono accesi come sempre, fa un caldo da schiattare. Sul mio banco ci sono due dita di polvere, la tastiera dei computer è quasi sommersa.

“Ti ricordi Bruno, quando ero pivello? Sei stato tu a svezzarmi…”

“Altroché! Mi stressavi con tutte quelle domande teoriche… E non riuscivi nemmeno ad attaccare un cavo…”

In seguito di cavi ne ho attaccati a centinaia. A volte ce n’era un tale groviglio che dovevo staccarli a uno a uno. Era l’unico modo per riprendere il filo del discorso e capire quale fosse il giro dei segnali. Poi iniziai a metterci delle etichette… Ne ho imparate di cose, ho imparato perfino a saldare… Ogni tanto mi cadevano i componenti dai prototipi. Parevano incollati con la saliva… Portarli in fabbrica a farli riparare era la mia ultima chance. Che avrei detto l’indomani al mio capo? “Pasquale, facciamo il punto della situazione: problemi chiusi, problemi aperti, azioni intraprese…” Avrei potuto dirgli che avevo portato le schede in reparto, e nel frattempo ero rimasto con le mani in mano? Non se ne parlava neanche. Allora dovevo “ingegnarmi” come potevo. “Un ingegnere deve saper fare tutto!” mi ripeteva fino alla nausea… Rimanevo spesso fino alle otto di sera. Già verso le sette il brusio dei corridoi andava sfumando, i rumori si spegnevano. Alle sette e mezza passava la guardia per la solita ispezione. Dopodiché restavamo soli… Io e il mio apparato. “Oggi ti sei comportato male” gli dicevo. “Mi hai costretto a spegnerti un sacco di volte. Bastava che aggiungessi qualche decibel di attenuazione e ti piantavi. Non mi trasmettevi più nemmeno un bit, e non c’era verso di farti cambiare idea. Tu sei un figlio di puttana. Conosci solo le maniere forti: il restart. Ti spengo, ti riaccendo, ed eccoti finalmente ripartire con le configurazioni corrette. Che bisogno c’era di rompermi l’anima in quel modo? Sono tutte salvate nella Flash, non scappano. È inutile che cerchi di farmi fesso. Non puoi fare il furbo con me. Non ti conviene.”

 

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