Luigi Bisignani
Nella notra storia paesana, ci sono tante storielle “che fanno un po paura” misteriose…
il nostro amico Minucciu ha voluto mettere alla luce una delle tante cronachette “l’impiccato do suppuortu da terra”,supa a casa i ziu luviggi u capitanu,conoscete? certamente no, allora leggete attentamente….buona lettura.
Stuòzzi ì stòria: Quìra vòta chì ‘nnànu àbbambàtu.
Tempo addietro, in una delle “cronachette” dedicate al paese, ho accennato a fatti ed episodi di storia sandonatese tramandati nella memoria popolare e relativi a “spìriti” stanziali “nt’àncùni bànni” del territorio sandonatese.
Fra varie “presenze” vi era quella di un impiccato in abiti medievali, la cui incorporeità penzolava dall’arco “dò sùppuòrtu dà tèrra” sopra il quale era ubicata l’abitazione “ì zìu Luvìggi ì càpitàniu”.
Tradizione voleva che l’impiccato fosse il fantasma di un cavaliere giustiziato dai conpaesani per via che nel XIII secolo aveva tradito il paese di San Donato aprendo la porta “àra chièsia àra tèrra” e permettendo così che le milizie del signore di Altomonte vi penetrassero mettendo il territorio a ferro e fuoco.
Oltre che incendiare e distruggere l’abitato (costituito in maggioranza “à pàgghjàri”) le truppe di Altomonte avevano disfatto le poche strutture in muratura e distrutto il castello, del quale lasciarono semi-diroccata, una delle torri.
Nel corso dell’attacco andò distrutto anche un convento dell’ordine domenicano, presumo il fabbricato (già francescano) ubicato nella omonima località e del quale, io bambino, rammento ancora esistente una solitaria porzione di muro.
Questo era il resoconto di fatti antichi raccontati dagli anziani durante la mia infanzia ed era anche una delle tante “sconfitte” degli antichi sandonatesi, probabilmente la più bruciante perché subita ad opera “dè cìramilàri”, scomodi ed odiati confinanti, verso i quali “ì sàntunatìsi ì nà vòta” hanno sempre manifestato particolare antipatia, cosa del resto accaduta verso tutti quelli accusati, a torto od a ragione, di usurpazioni sulle nostre vecchie terre.
“Arrùbbamiènti”, nel sentire paesano erano la sottrazione materiale di terre (vedi le donazioni ed i canoni a favore di S. Maria di Acquaformosa e di Santa Maria della Matina stabilite nel XII secolo e quelle operate nel XIV secolo con l’assegnazione di terre ai profughi albanesi di Lungro ed Acquaformosa, nonché quelle del XV secolo in occasione della nascita di San Sosti ed ultima la sottrazione della contrada Macellaro nel XX secolo).
Per i sandonatesi erano usurpazioni anche l’assoggettamento e la perdita della titolarità feudale, circostanza verificatasi dalla metà del XIV secolo, quando San Donato perse il titolo di terra feudale e divenne suffeudo di Altomonte, ciò a seguito del matrimonio di Gerardo d’Arena, che di Altomonte era signore, con Adelasia d’Arci, figlia ed unica erede di Baiamonte d’Arci, che delle terre sandonatesi era feudatario.
I feudatari successivi non diedero titolo di feudo nè mantennero residenza in San Donato, distretto che venne “gestito” da suffeudatari nominati dai signori-acquirenti delle nostre terre, fra i quali i Sanseverino, della cui famiglia era imparentata la signora che ordinò la distruzione nelle terre di San Donato.
La storia ci dice che dopo la metà del XIV secolo, le terre sandonatesi passarono di mano nel 1510 per essere sottoposte alla signoria di un Sanseverino del ramo cadetto al quale vennero infeudate col titolo di Duca di San Donato.
Ebbero in paese la presenza fisica del signore-feudatario, ma la permanenza durò un ventennio, appena il tempo di costruire il palazzo e la chiesa (edifici tuttora esistenti nella zona dei casali), dopo di che la famiglia feudataria, avendo acquistato altri feudi, trasferì la residenza in Roggiano.
Il signore feudale fu nuovamente presente in San Donato, seppur per tempi brevissimi, verso l’inizio del 1700, quando le terre vennero assegnate alla famiglia Sambiase.
Solo nel 1780 San Donato ebbe la presenza fissa del barone, quando il feudo venne acquistato dai Campolongo che lo mantennero fino al 1806.
Soddisfatte le esigenze storico-cronologiche, come dicevano i nostri antichi, “tùrnàmu à ‘nnùi” e vediamo se la memoria popolare trova un fondamento nella storia.
Analizzando la scarsa e scarna letteratura sulle ”terre di San Donato”, in un fascicolo dell’Archivio storico della Calabria e della Lucania (anno LXXX, Roma 2004) ho scovato uno studio a cura Giuseppe Russo, inerente la costruzione, presso la chiesa della consolazione in Altomonte, di un convento domenicano.
Scrive lo studioso che l’opera fu voluta dalla contessa Covella (Jacovella o Giacomella) Ruffo e venne approvata dalla Santa Sede l’11 marzo 1444 con bolla di papa Eugenio IV.
Dice anche che la contessa Ruffo, per “sopravvenuto pentimento”, con la costruzione e la donazione del convento, voleva fare emenda per aver fatto distruggere, vent’anni prima, il convento di San Domenico nella vicina terra di San Donato.
Lo stesso Russo ci dice che nel manoscritto Campione seu distinto notamento delle scritture del 1675, fatto redigere sull’originale dal priore del suddetto convento, è registrato che Covella Ruffo, da papa Eugenio IV avesse ottenuto l’assoluzione dalla scomunica precedentemente inflittale per aver fatto bruciare la terra di San Donato.
Al capo XXXI, il citato documento riporta la dicitura “Assolutione di Cuvella Ruffa, per haver fatto bruciare la terra di Santo Donato, sotto Eugenio quarto l’anno ottavo del suo pontificato”.
Motivo della drastica risoluzione della signora di Altomonte che decise di “bruciare” le terre sandonatesi, pare fosse il rancore e lo spirito di vendetta per “un torto subito”.
La storia, in generale ed i documenti citati, in particolare, non specificano la natura dello “sgarbo” posto in essere verosimilmente attorno al 1310 o 141, da abitanti e/o monaci sandonatesi,
Neanche vi sono certezze circa l’identità degli autori del torto (monaci, popolo sandonatese od entrambi) né si registrano notizie circa entità del danno e specificità del fatto.
Qualche dubbio rimane circa l’anno in cui l’incendio delle terre di San Donato sarebbe avvenuto, ciò perché alcuni storici annotano che la fondazione del convento di Altomonte risalirebbe al 1350 su precedente impianto realizzato da Filippo Sangineto, sebbene gli stessi storici diano per certo che la realizzazione sia stata ad opera della contessa Covella Ruffo che “lo volle edificare per porre rimedio alla distruzione di altro convento da lei voluto per vendicare un torto subito”.
In mancanza di altri riscontri ed essendo poca la storia sandonatese scritta dagli antichi, per spiegare le circostanze dell’incendio che distrusse le terre sandonatesi, non resta che rifarsi all’indole dei miei antichi compaesani, il cui modo di pensarla non differisce di molto da quelli contemporanei.
Si può ragionevolmente ipotizzare, anche alla luce di episodi accaduti in tempi sia precedenti sia successivi al XV secolo, che lo sgarbo, il torto (o che dir si voglia) del quale la Ruffo si lamentava, doveva avere certamente matrice di natura economico-patrimoniale.
Ai sandonatesi antichi, il sentir parlare di servitù, servizi e angarie, imposizione del feudatario o dei suoi amministratori, causava l’orticaria perché per indole erano naturalmente insofferenti verso tasse, imposte e gabelle e le studiavano tutte per aggirarle (meglio se si trovava un modo per evaderle).
A titolo di esempio, coevo ai fatti narrati e relativi all’incendio, cito la lamentela dei monaci del convento di S. Maria in Acquaformosa, verso il quale le terre sandonatesi erano tributarie ed il cui Abate annotava che, degli otto scudi di benefici, dai sandonatesi ne riscuoteva con fatica ed a malapena due. Altra lamentela riguardava le “salme di vino”, da tributari mai consegnate nella misura pattuita, ma in quantità inferiore e di qualità pessima.
Aggiungiamo che, quando il peso dei tributi era eccessivo, il sandonatese ovviava con depredazioni su armenti, mandrie, magazzini e beni vari, tutto a danno delle proprietà di signori feudali e loro amministratori o suffeudatari. Questo nell’ordinario.
Nello straordinario potevano verificarsi incendi di messi e frutteti o l’annichilimento delle proprietà (oggi probabilmente pochissimi hanno ricordo “dà cànnàcca” a castagneti, oliveti ed altri impianti fruttiferi, pratica distruttrice e di vendetta praticata fino agli anni 50).
E’probabile che un gravame od una imposizione eccessivi possano aver indotto i sandonatesi ad una reazione (ruberie, danneggiamenti, omesso versamento di tasse e gabelle) circostanza che la Ruffo ha giudicato irriguardosa e lesiva del suo potere feudale, oppure che il danno patito le sia apparso troppo oneroso.
Altro dubbio irrisolto è la distruzione da incendio del convento dei domenicani. Non sappiamo se era dovuta ad un atto irriguardoso od un torto posto in essere dai frati o se bisogna considerarlo “danno collaterale” cagionato da furia distruttrice “de gàvutumuntìsi” che sono andati ben oltre il mandato ricevuto.
Covella Ruffo, imparentata con i Sanseverino, potente famiglia feudataria nel regno del sud, quale mandante dell’incendio e della distruzione del villaggio di San Donato e dell’attiguo convento domenicano, fu colpita da una scomunica durata venti anni, la cui revoca venne dalla sua famiglia “àccattàta” mediante la costruzione e la donazione del convento di Altomonte ai domenicani.
Nel casato dei Ruffo si annoverano due donne a nome Covella.
La prima Covella Ruffo, fu contessa di Altomonte ed era figlia di Antonio, conte di Montalto nonchè sorella di Carlo Ruffo. Nacque verso la metà del 1300 e morì nel 1447 “in tarda età” riportano alcuni storici.
Aveva sposato in prime nozze Giacomo della Marra, signore di Oriolo e morto costui sposò il conte di Altomonte, Ruggero Sanseverino (figlio di Venceslao conte di Tricarico), signore feudale al quale, sin dal 1351, erano intestate anche le terre di San Donato.
Spesso la sua storia è stata confusa e sovrapposta con quella della omonima nipote Covella, figlia di Carlo Ruffo e di Ceccarella Sanseverino, nata nel 1412 a Cosenza e morta nel 1445 a Maine et Loire (Francia), sposata con Carlo IV d’Angiò conte di Maine, morto il quale convolò a nozze con Giovanni Antonio Marzano duca di Sessa.
Covella, duchessa di Sessa ed altro, fu donna potentissima, stabile presso la corte della regina Giovanna, della quale godeva i favori. E’ ricordata dagli storici per aver ordito trame politiche e per aver anche preso parte alla congiura che sfociò nell’uccisione di Giovanni Caracciolo detto “Sergianni“.
La distinzione e separazione delle vicende che riguardano le due Covelle, è riconosciuta alle ricerche del prof Vincenzo Napolillo, il quale, attraverso studi approfonditi, è stato il primo a chiarire con precisione documentaria che la contessa Covella, sepolta dai domenicani nella chiesa di Altomonte, non è la stessa Covella che fu duchessa di Sessa, Montalto e Squillace.
Per il nostro essere sandonatesi (e per quel che può riguardarci, in maniera diretta od indiretta), alla luce di quel che emerge dalla storia appena narrata, possiamo tranquillamente affermare che “zìa e nipùti, ònn’èranu farìna ppì l’òstia”.
Maggio 2017
Minùcciu
1 commento
La fortuna non è mai stata troppo benigna con il nostro paese e la sua gente.