Luigi Bisignani
Il nostro amico Minucciu ha voluto regalarci una sua ricerca sul “Don ” a San Donato di Ninea e ve ne faccio parte.
Molti dei titoli, che nel nostro paese un tempo usavano distinguere appartenenze, classi sociali o persone dotate di qualità od abilità personali, risultano dismessi. Tra essi rammento màstru (indicava il maestro in un’arte od un mestiere); gnùri (appellativo rispettoso verso gli anziani e di cortesia verso i forestieri); dònnu, che spettava alla nobiltà ed agli ecclesiastici ed è sopravvissuto nella forma abbreviata di “don”.
Appartengo a quella generazione di sandonatesi che ha vissuto l’uso del termine “don” ed ha conosciuto i discendenti “dà ràzza mituòica”, quei “sandonatesi a metà”, quelle ultime persone alle quali ci si rivolgeva anteponendo il pomposo appellativo al nome di battesimo e dei quali saranno citati nomi e casate.
Di “gnùri e màstru”, da subito mi furono chiare origini e presupposti d’uso. Era rimasta la curiosità circa l’uso del termine “don” nel parlato sandonatese, argomento che ho ritenuto d’approfondire, andando ad appurare, origini ed introduzione in ambito paesano.
Il termine latino per esprimere il concetto di “signore”, “padrone” o “possessore di qualcosa”, è “dominus” o “domina”. Contratto in “domnus” “domna”, il vocabolo ha dato origine al “dòn” e “dònna”, usati in accosto al nome proprio, quali titoli onorifici e già dal XIII secolo, quando erano locuzioni d’uso verso patrizi e nobili. Era appellativo dovuto a religiosi di nobili origini, mentre per il clero “dei ceti più bassi”, era sufficiente il termine “reverendo”.
In alcune zone centro-meridionali della penisola, sino a qualche decennio addietro, il don era titolo che richiamava rispetto e veniva usato per indicare persone di alta estrazione sociale (nobili, possidenti) ed anche coloro che esercitavano professioni liberali (avvocati, notai, sindaci, medici, etc.)
Il titolo “dòn e dònna” appartiene alla tradizione ed al sussiegoso mondo dell’aristocrazia spagnola, dove nasce, prende piede e si afferma gia dal XIV secolo, quale appellativo riservato al re (e per sua concessione, agli appartenenti alla casa reale e ad una selezionata nobiltà).
Quando gli iberici nel XV secolo conquistano la penisola italiana, il termine “don” si afferma anche da noi e per circa un paio di secoli acquisisce profilo di trattamento d’onore piuttosto esclusivo che, negli atti pubblici, viene riservato solo a chi ne ha veramente diritto.
Dalla seconda metà del ’500, sovrani di forte personalità erano stati ben attenti ai “partiti” ed avevano gestito in prima persona il conferimento dei titoli nobiliari ed onorifici, evitando di delegarne la concessione e così facendo accrescere il prestigio e il potere degli “ambienti di corte”.
In Italia gli spagnoli permisero invece la crescita del numero di “grandes” e “titulados”. I numeri di questa inflazione degli onori (specie in Campania e Sicilia) rimandano alla “mobilità sociale” che fra il 1500/1600 coinvolse il ceto nobiliare, tanto da far sostenere ad alcuni storici che “mai nella storia finora scritta e conosciuta la nobiltà, anche quella feudale, si acquistasse con tanta facilità”.
In quel periodo la piramide feudale era dilatata alla base dove “al di sotto della grande feudalità scalpitava ora una massa di piccoli feudatari quasi tutti di recente e recentissima nobiltà”
Il conferimento del solo titolo di “don” fu attribuito in numero tale da risultare “inflazionato” tanto che non poteva più considerarsi “titolo nobiliare” ma soltanto onorifico. Nonostante questa “svalutazione”, acquisire il “don”, per molti fu un trampolino di lancio verso riconoscimenti più prestigiosi. Assunse anche forma, seppur minima, di distinzione sociale per coloro che al titolo nobiliare vero e proprio non avrebbe mai potuto aspirare.
Tra il 1562 e il 1678, specie in Sicilia, furono concessi o venduti numerosi titoli feudali. Filippo IV, soprattutto nei suoi primi anni di regno, diede un forte impulso al mercato della
nobiltà e degli onori in tutti i suoi segmenti, tanto che durante il vice regno del XVII secolo, la Corte spagnola, sempre bisognosa di quattrini, vendeva il predicato “don” con appositi diplomi.
Una “fame di titoli” che incontrava la disponibilità di una Corona in perenni difficoltà finanziarie ed interessata ai ricavi che derivavano dal “quel mercato”, tanto da indurre l’emanazione di severi bandi, fra i quali uno del 15 ottobre 1620, col quale si intimava: “che nessuna persona di qualsivoglia stato, grado, conditione e sesso ardisca di qua innanzi mettersi, né in voce, né in scritto, titolo di Don, non avendolo esso, o suoi antecessori privilegio, e non lo tenendo per altra ragione legitimamente, sotto pena d’onze duecento”.
Nello stesso bando, inoltre, si dava pubblica notizia di un provvedimento del dicembre 1619 dove il sovrano aveva fissato il prezzo del titolo di “don” in 40 onze.
Dal 1626 e fino al 1632, le consulte (assemblee il cui parere era obbligatorio per la concessione di qualsiasi titolo) sottolineavano che “estos titulos por lo passado se solian vender a mil reales cada uno y agora no se halla ni aun la mitad”.
Nel 1657, il “don” era considerato una “merced minima”, tanto che per la sua concessione non era più necessario il parere della consulta. Tanto il valore del titolo era caduto basso, che la sua stessa appetibilità ne risultò compromessa.
Durante la breve parentesi austriaca, con diploma del 1731, l’imperatore Carlo VI, “ordinava di accordarsi l’uso vitalizio del Don, mercè il pagamento di una tassa di onze quattro” (dieci volte meno del prezzo fissato nel 1619) al quale andavano aggiunti “pochi tarì per la spedizione del privilegio da farsi dal Protonotaro del Regno”.
La “vendita” dei titoli venne esaminata dalla Consulta, la quale, nel gennaio 1732, decise: “non essere conveniente toccarsi in modo alcuno questo punto che poteva recare al R. Erario più imbarazzi e confusione che utile, il quale poteva ridursi o a niente o a tenuissima somma, tenuto conto che:
-trattandosi di una pura vanità, già tollerata in Sicilia, il proibirsi, per vendersi senza il costituitivo di nobiltà, riusciva di poco decoro;
-essendo stato il Don distintivo di nobiltà, non sarebbe stato giusto che, per mezzo di questo tenue pagamento, qualsivoglia persona, non esclusi gli artefici ed i rustici, potesse avere credito di nobile e fosse come tale trattata senz’altro requisito;
-non doveva considerarsi come prammatica il bando pubblicato dal viceré conte di Castro [quello del 1619], che non produsse allora utilità alcuna;
-essendo universale e comune l’abuso, il mettere in pratica la proibizione sarebbe stato di molto imbarazzo, dovendosi continuamente far delle procedure acciocché tutti provassero la loro nobiltà.
Ed infatti non se ne parlò più poiché il titolo di “don”, continuò a venir concesso con diploma reale, in rimunerazione di meriti o di servigi resi.
Fra beneficiari o acquirenti del titolo di “don”, la condizione sociale ed economica si presentava assai variegata. La maggior parte dei beneficiari era costituita non solo da personale impiegatizio, ma anche da ufficiali e funzionari della Corona e da ecclesiastici di medio rango. Il gruppo più nutrito era quello dei militari, diversi dei quali presentavano un lungo e valoroso stato di servizio.
Per una prassi locale di criteri “elastici”, adottata da notai e dai cancellieri delle “Università” meridionali, nella redazione degli atti si eccedeva nell’uso del predicato “don”, creando una situazione che forse non rispecchiava del tutto lo stato giuridico dei soggetti nominati, rispetto i titoli annotati negli atti che li riguardavano. Nel corso del XVIII secolo l’appellativo è riconosciuto con maggior larghezza, anche a coloro non necessariamente ascritti a nobile rango.
Tornando a noi, cito i “don” sandonatesi ai quali ho accennato all’inizio, quegli ultimi “dinosauri”, monumenti viventi di quella classe che, a buon diritto, si considerava la “buona società sandonatese” e che il popolo definiva “à ggènti bbòna”.
Tenendo conto delle risultanze anagrafiche, in rigoroso ordine di anzianità, elenchiamo:
–“Dòllubèrtu”; Roberto Campolongo, sacerdote e “dòn” due volte in quanto prete e nobile, fratello minore del barone don Achille, quest’ultimo “maggiorasco” e discendente dell’ultimo feudatario sulle terre di San Donato. Rammento, io bambino sui 4/5 anni, questa figura di prete alto, secco e allampanato, che passeggiava nella piazza della chiesa leggendo il breviario.
–“Dòrriguàrdu ù fàrmacìsti”; don Edoardo Buono, che teneva “putìga ì fàrmacìsti à quìri ì spagàrru”. Lo ricordo vestito con ottocentesca proprietà ed eleganza, sempre con cappello (talvolta in bombetta), cravatta a “farfalla” e spesso con le ghette, mentre “àcchjanàvadi” verso casa sua (abitava ‘ncàpu casàli).
–“Dòn Cìcciu dà pòsta”; don Francesco Buono, direttore dell’ufficio postale di San Donato (gia da quando era ubicato in uno “de mènsanìli dò ‘ngignièri à menza”), incarico mantenuto fino al momento del collocamento a riposo e poi assunto dalla moglie dònna Elvira. Abitava un palazzotto “àru Sàmmicuòsu”.
–“Dòn Francìscu monàcu” Francesco Monaco, insegnante (per inciso mio maestro in II° elementare), proprietario, fra altro, del palazzo “àra chjàzza dò Jardìnu” (attualmente, dicono, in stato fatiscente, disabitato e pericolante).
–“Dòn Cìcciu i carivòni”; Francesco Buono, il cui agnome gli derivava dalle proprietà in località “Carivòni”, delle quali era gelosissimo custode. Abitava “’ncàpu càsàli”.
–“Dòmmicùzzu ù sàttùru” Domenico Gabrielli, possidente e gia concessionario per l’esattoria sandonatese (incarico che gli ha fruttato, oltre agli utili, anche l’agnome); abitava nei pressi della chiesa del Carmine, in località Chjazzètta.
–“Dònnuràzziucordàscu”; Orazio Cordasco, insegnante (l’ho avuto in quarta elementare) che aveva casa a Licastro e durante l’anno scolastico veniva in paese a piedi per tenervi le lezioni passando a Sàntu Piètru e dò jèrtu ì Sàntu Crìstòfaru.
-“Dòmpippìnuàmènza” Giuseppe Lamenza, medico alle cui cure sono ricorsi generazioni di sandonatesi e per svariati decenni responsabile della “condotta” sandonatese; abitava un palazzotto fra “silichi e chjàzza nòva”.
–“Dònnuràzziuàmènza” Orazio Lamenza, negoziante ed agente di viaggio navale (ha curato per decenni le pratiche per i sandonatesi che volevano emigrare verso le americhe); aveva bottega al piano terra dell’abitazione, “ara chjàzza nòva”.
–“Dònnalfrèduàmènza”; Alfredo Lamenza, ingegnere libero professionista, proprietario del palazzotto, ubicato all’inizio della salita “trà putìga i Lìmmìnu e ri sìlichi”, presso i cui “mènzanìli frùnti à vanèddha” fu locata, fino agli anni ’50, la prima storica sede dell’ufficio postale, servizio di cui un suo avo, a metà dell’ottocento, fu concessionario.
–“Dònnernèstàmènza”; Ernesto Lamenza, insegnante elementare, abitava nei pressi dà “Sìddhàta”.
–“Dòn Giùvannìnupaniàncu”; Giovanni Panebianco, imparentato con l’omonima e storica famiglia sandonatese, impiegato comunale; abitava “àra chjàzza nòva”.
–“Dònfràncùbaruni” Francesco Campolongo, figlio di Don Achille ed ultimo nella sua famiglia a potersi fregiare del titolo di barone (è morto scapolo). Figura carismatica fra i giovani della mia generazione nei quali ha radicato la passione per la pratica sportiva.
–“Don Cìcciucordascu”; Francesco Cordasco e la sorella dònna Flora (figli di “dònn’Arìstu”, Aristide Cordasco), eredi, con altri germani del patrimonio e dell’azienda elettrica che riforniva di energia il sandonatese. L’impianto, ubicato sulla via d’acqua nei pressi di Policastrello, restò in funzione fino alla nazionalizzazione degli anni 70. Abitavano il palazzo di famiglia ubicato nei pressi dà chjàzzanòva.
Un don, mica tanto atipico, era quello di cui poteva (ed a ragione) fregiarsi Dommiciènzu Càluprìsi, prete che per amore aveva gettato la tonaca alle ortiche e che diceva “ì campà a vicchiaia ccù ttrì ppì”, pensione, prosa e poesia.
La classe sociale di cui parliamo, aveva anche un suo “universo femminile”, costituito da madri, sorelle, mogli e figlie, di quasi tutti i “titolati” sopra elencati, alcune delle quali godevano di uno “status proprio”.
Fra esse segnalo:
–“A signùrèddha”, supersite di tre sorelle di Don Achille Campolongo, i cui nomi tramandati erano Lisetta, Rusìna e Niculètta (vecchi compaesani a Niculètta sostituivano Filumèna), che il popolo sandonatese indicava quali “ì signurèddhi dò palàzzu”. La ricordo molto anziana e curva su se stessa, mentre si aggirava nelle stanze dell’ala del palazzo baronale a lei riservata.
–dònna Carmela, madre del barone don Franco;
–dònna Luisa, della famiglia Martucci;
-dònna Càrmilìna e donna Mariètta, della famiglia Ottato;
–dònn’Elvira dà pòsta (coniugata Buono), della quale abbiamo gia detto);
–dònna Lìna, che abitava nel rione chjàzza vècchia (i sandonatesi, del titolo congiunto al nome, ne hanno fatto agnome che ha dato origine ad una “razza”, “quìri ì dònna Lìna” appunto.
Non sappiamo se i titoli di “don”, con i quali i maggiorenti del paese e gli altri sandonatesi in elenco venivano appellati, fossero autentici e corredati da diploma reale. Non abbiamo effettuato ricerche in tal senso perché non è nostro compito verificare e fornire patenti di autenticità per un titolo che, per generazioni, fra la popolazione sandonatese è stato unanimemente accettato ed attribuito.
Ed a proposito di “volontà popolare”, come dimenticare due persone che negli anni cinquanta i sandonatesi beneficarono spontaneamente del titolo di “don”.
I gratificati erano:
–Dònnèrculu, Ercole Zigarelli originario di Fuscaldo, il quale, negli anni ’50 era venuto in paese, con famiglia al seguito, per eseguire e coordinare quei lavori (muraglioni e briglie) che dovevano evitarci il dissesto idrogeologico e le frequenti frane.
–Dònnicòlaùcàrbunièri, Nicola Ingenito, che in paese giunse da semplice carabiniere e vi rimase per circa vent’anni conseguendovi il grado di appuntato. Da solido abruzzese qual’era, verso quel don attribuitogli nutriva dubbi e diffidenze. Essendo lui di origini popolari, sospettava che buona parte della popolazione sandonatese, lo appellasse col “don” non per rispetto, ma “à ppìà ppì fìssa”.
Appare evidente che il “don”, sebbene titolo di antica derivazione, in San Donato è penetrato e si è affermato nel XVII secolo, durante la dominazione spagnola.
Costituiva un distintivo-appellativo d’onore. Era un “trattamento” e non un “titolo”, nel tempo affermatosi nelle regioni dove hanno dominato gli spagnoli. Difatti fu l’appellativo tipico per la nobiltà e per una buona parte del “popolo grasso” della Sardegna, delle Due Sicilie e del Milanese.
In Sardegna i Savoia il ”don” lo riconobbero e lo mantennero ai “Nobili Cavalieri”. Gli austriaci in Lombardia lo riconobbero e lo mantennero (nonostante il “don” fosse completamente estraneo ai loro ordinamenti). Con gli spagnoli, il “don” venne subito accettato e si diffuse con molta facilità nei territori del regno delle due sicilie.
Dopo l’unità, la Consulta Araldica del Regno d’Italia lo mantenne ai Sardi, ai Lombardi, lo consentì a Principi e Duchi e di alcune famiglie romane.
Non lo riconobbe alle famiglie dell’ex regno di Napoli, ignorando con questo la regione dove il “don” era maggiormente radicato e dove era maggiormente diffuso, ciò dovuto forse alla “facilità” con cui nel tempo era stato concesso ed attribuito.
L’ultima regolamentazione al trattamento di “don” la diede casa Savoia col R.D. 21.1.1929 nr.61 titolato “Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano” del quale trascrivo l’articolo che ritengo utile ed interessante per quanto finora raccontato.
Art. 52. Spetta la qualifica di “Donna” alle consorti dei personaggi compresi nelle categorie prima e seconda dell’Ordine delle precedenze a Corte e nelle funzioni pubbliche, approvato con Reale decreto 16 dicembre 1927, n.2210, e modificato con Reale decreto 18 gennaio 1929, n.14.
Sono mantenute le qualifiche di “Don” e di “Donna”:
-a) alle famiglie che ne abbiano ottenuta speciale concessione;
-b) alle famiglie ex feudali romane, insignite di titoli di principe o di duca e a quelle marchionali cosiddette di Baldacchino;
-c) alle antiche famiglie nobili lombarde che le ebbero già riconosciute all’epoca della Revisione nobiliare ordinata dalla Imperatrice Maria Teresa;
-d) alle famiglie sarde decorate simultaneamente del Cavalierato ereditario e della nobiltà. Alle famiglie principesche o ducali delle altre regioni d’Italia, che dimostrino di avervi diritto, l’uso di tali qualifiche sarà riconosciuto mediante decreto del Capo del Governo, previo parere della Consulta Araldica.
Sono infine mantenute ai Patrizi Veneti le qualifiche di “Nobil Uomo” e di “Nobil Donna”.
L’avvento della repubblica nel 1948 fece piazza pulita degli appellativi in argomento abolendo tutti i titoli nobiliari.
Questo però ai sandonatesi non interessò affatto perché, in barba a leggi e disposizioni, seguitarono ad attribuire “ù ddòn” a tutti coloro che ritenevano tale titolo spettasse.
Era un servilismo anacronistico ed inutile ed anche una forma di atavica sottomissione al notabile ed al possidente.
Anche in questo vi era una manifestazione di quel retaggio di ostinatezza e testardaggine “bruzia” che porta il sandonatese ad agire come meglio crede e come più gli conviene, fregandosene di tutto e di tutti.
Aprile 2017
Minùcciu