Luigi Bisignani
Dopo tanto tempo d’assenza ,quando si ritorna la paese c’é un rituale al quale non si puo “scappà”
il saluto ,in primis ai parenti,agli amici,ai vicini ,alle conoscenze,ai curiosi che ti guardano dalla testa ai piedi…con il rituale “chini sini,cumu stasi,quannu si arrivatu …e quannu tinnivasi.
Dopo questo rituale piacere,la voglia e di farsi una scappatina per tutto il paese ,per scoprire e riscoprire i luoghi d’infanzia ,luoghi cambiati o luoghi quasi distrutti…luoghi che si sentiva tanto la mancanza,questi sono i primi passi dopo un lungo ritorno.
Tra i tanti racconti che il nostro amico Minucciu invia,questo fu uno che riprongo con molto piacere.Vi raccomando di leggerlo e se possibile lasciate il votro commento.
Parmarij
Dopo un’assenza di quattro anni ero tornato in paese per un breve periodo di ferie. Fatto il rituale bagno di affetto con la parentela e rinfrescate amicizie e conoscenza, dopo qualche giorno “sintìej cà m’abbùlava ll’anima”. Giravo per il paese, mi fermavo ad osservare “chjazze e vaneddhe”, non tanto per incontrare o salutare gente, quanto per memorizzare i cambiamenti, le novità, notare quante residue attività artigiane sopravvivevano, rivedere luoghi di giochi infantili e riassorbire le atmosfere delle quali, da qualche tempo sentivo la mancanza.
Era un salutare bagno nella sandonatesità più vera, un modo per liberarmi temporaneamente di atmosfere che non sentivo mie e riassorbire gli umori paesani, traendoli “à nà mrùscinata ntà pùrugula dò paìsi”.
Durante una delle girate, “ncapu casali” intravedo una persona anziana, seduta avanti la porta di casa col mento sulle mani, poggiate sulla curvatura “do vetti”.
La posizione particolare ha richiamato alla memoria una fisionomia nota e mi sono avvicinato per salutare.
Zìu Viciènzu, perché di lui si trattava, mi ha riconosciuto e preceduto, pronunciando il mio nome. Dopo i convenevoli, al momento di congedarmi, ha fatto cenno di avvicinarmi e, sottovoce, come a confidare un segreto mi fa: ”arricordati cà sì nnàtu ntè vaneddhj da chiazza”. Dico a ziu Viciènzu di ricordare i miei primi passi in altro rione e lui, un po’ risentito e per zittirmi, fa: ”à rìma chi mìnasi a pìasi addhùnni nàscisi”. Non che la cosa abbia importanza od abbia in qualche modo influito sulla mia crescita e formazione, avvenute principalmente “aru sammicuosu”, ma sono effettivamente nato in uno dei vicoli della piazza vecchia.
Debbo precisare che “l’appartenenza”, nel periodo della mia infanzia ed adolescenza, era una parte importante dell’essere sandonatese. L’identificarsi nel clan familiare, “à ràzza”, e l’essere orgogliosi del proprio rione, quando si muovevano i primi passi all’interno della comunità, era fondamentale.
Per i più giovani spiego che, per come la vedeva Ziu Vicienzu e per quei tempi, “à ghèssi nàtu àra chjazza vecchia e ntè vaneddhj vicìni” era come una marcatura. Aver respirato quell’aria era una “patente”. In questo moto d’orgoglio, non era esente una buona dose d’interesse personale. Ziu Vicienzo, “ara chiazza” era nato e n’era orgoglioso, anche se vicende della vita, nel nostro caso il matrimonio, l’avevano portato a risiedere “aru casali”.
Ripensandoci, effettivamente “à ggènti da chjazza” guardava al resto delle contrade del paese con quel senso di superiorità derivante dalla consapevolezza d’essere in qualche modo speciale, Non era né razzismo né superbia perché le condizioni economico-sociali erano uguali in tutti i rioni del paese. Era un modo di porsi alla gente, pieno di sussiego e di sano sciovinismo. “Nùi sìmu i mìegghi, sùmu dà chiazza”. Questo pensiero, era il nutrimento dell’anima per gli abitanti del rione della piazza vecchia e dei suoi vicoli.
La casa i ziu Vicienzu è stato il luogo in cui ho appreso molte cose su paese e paesani. Tempo e temperature permettendo, dopo cena (il popolo minuto cenava presto, andava a letto presto, si alzava ed andava al lavoro presto)
”ù vicinànzu” si riuniva per concedersi una pausa ristoratrice e scambiarsi le ultime nuove. D’inverno questo momento conviviale avveniva all’interno della casa. Questi passatempi si riassumevano in una sola frase: “jì a spustà”
Durante questa forma di socializzazione, vigeva una sola regola: si parlava uno per volta, generalmente, anzi sempre, gli anziani. Solo i “granni” avevano diritto alla parola. Per “guagliuni e quatrari” una sola consegna: il silenzio.
Rammento che ziu Vicienzu rifuggiva i discorsi aventi argomento il pettegolezzo e la messa in pubblico degli affari altrui, per intendersi “judicà e si fa gàbbu”. Per principio però, quando si toccavano certi argomenti, non interferiva né partecipava mai.
Lasciava fare, salvo battere il bastone per terra quando si esagerava o si oltrepassava il limite della costumatezza, (c’erano orecchie innocenti da preservare).
Può sembrare strano ma, i racconti, sentiti durante “u spustà”, erano la necessaria fonte di conoscenza, scuola di vita e periodo di formazione, necessario per regolare ed impostare i rapporti futuri e scegliersi amicizie e compagnie. Durante dette serate, i ragazzi e gli adolescenti, in aggiunta a quelle ricevute in famiglia, acquisivano una messe di nozioni tali da poter, in futuro ed alla bisogna, riscrivere l’atto di nascita, la genealogia, la storia, lo spessore economico, morale e sociale, la consistenza patrimoniale e le altre vicende di tutte le famiglie del paese, compresa la propria. Questo “sapere” si poteva riassumere nel detto: “sàcciu chjni sùgnu, ma sàcciu pùru chjni sì ttù”.
Questa forma di passatempo era comune a tutti i vicinati ed a tutte le case ove “u spustà” era praticato. Ne conseguiva che il tipo di scuola e di formazione delle generazioni era identico. Certo, tutto era facilitato dall’assenza di altri mezzi di divertimento e distrazione. Il cinema “grapìadi” solo nel fine settimana ed a una famiglia numerosa, come generalmente s’era all’epoca, costava. La diffusione di radio e televisione era di là da venire ed il ballo con musica erogata da fonografi, chiamati in dialetto “miscina”, era praticato generalmente nel periodo di carnevale od in occasione di matrimoni. Pochi i mezzi di “distrazione” e le famiglie, gia numerose, limitavano ai “granni” altri tipi di “passatempo”.
Da ziu Vicienzu e da altre persone, come lui, anziane, ho ascoltato molti racconti, ”parmarij” li chiamavano. Il preferito, mai raccontato nella stessa versione, ma variegato ed ogni volta arricchito, era relativo “aru fàttu dò 48” con epicentro proprio “à chiazza”. Si trattava di una rivolta popolare originata da soprusi e contrasti col Duca e culminata con l’uccisione del feudatario dell’epoca. Siamo nel 1648, e la rivolta popolare era una reazione all’impiccagione di alcuni paesani ordinata o dal Duca o da suoi incaricati.
La versione fornita da ziu Vicienzu dava come causa dei disordini motivi di malcontenti sedimentati nel tempo. Nella narrazione, i vari episodi, venivano accavallati e sovrapposti e mai riferiti nella stessa maniera o nello stesso ordine.
Il Duca non risiedeva in paese, ove il feudo era dato in gestione a fiduciari. Saltuariamente e con adeguata scorta, il nobile si recava in paese, controllava e tirava i conti con i fiduciari e dava disposizioni su come far rendere le terre. Quell’anno si ebbe una concausa di eventi che sfociarono in violenze di massa.
Secondo quanto raccontava ziu Vicienzu, il malcontento, la rivolta ed il conseguente omicidio, traevano origine:
-da richiesta di risarcimento, ritenuta ingiusta e pretestuosa, per un furto di pecore, imputate dal duca ai paesani, che si proclamavano estranei;
-dalla variazione unilaterale dei patti, relativi al pascolo sulle terre feudali e conseguente pretesa, in aumento, dei canoni;
-dall’aggravio di talune prestazioni personali, in genere giornate lavorative, ed altre corvee obbligatorie;
-da alcuni elementi della scorta che, avvinazzati, operarono soprusi e violenze contro alcuni paesani, provocando così la reazione popolare;
-della pretesa del Duca di reintrodurre, fra numerose altre, la tassa sui “fuochi”, intesi come formazione di nuovi nuclei familiari. Il primo matrimonio tassato era di un appartenente alla famiglia Zaro, che fu uno dei capi della sommossa. Al rifiuto di corrispondere la tassa, al Duca, da qualcuno, fu suggerito di sequestrare i beni della sposa, di famiglia agiata. La rivolta della numerosa ed influente famiglia non si fece attendere e fu estesa alla popolazione.
Ai disordini, seguì la repressione e le persone, alle quali, fù impedito, non fecero in tempo, o non vollero scappare dal paese, furono tutte imprigionate. Alcune furono giustiziate immediatamente, altre impiccate dopo essere state deportate oppure morte di stenti nelle galere, altre ancora bandite.
Quasi tutte le famiglie implicate nei disordini furono toccate nei beni.
E’ di quel periodo la prima forzata immissione nel tessuto paesano di famiglie “forastiere”. Ciò perché San Donato a seguito della repressione, era impoverito nella forza lavoro.
Questo il racconto “i ziu Vicienzu”, sfrondato dagli arricchimenti che via via aggiungeva. Possiamo capire il suo essere orgoglioso del rione in cui era nato, ricco di storia e primo nucleo della rivolta divenuta successivamente leggenda paesana. Secondo il pensiero e la convinzione di ziu Vicienzu, “ghèssi nù pàrmu cchjù di l’àvuti” era il patrimonio, “a ricchizzi” di chiunque aveva avuto la sorte di nascere, trarre il primo respiro, emettere il primo vagito in un’abitazione da“chiazza vecchia ò dè vanéddhj appriessu”.
L’omicidio del Duca era una delle “parmarie” raccontate più di frequente durante i ritrovi. C’era un motivo di onore paesano e non vi era narratore che mancasse di inserire, fra i protagonisti della rivolta, qualche suo antenato.
Le “parmarie” in generale e non solo quelle narrate durante le veglie, “u spustà”, riguardavano vari argomenti, quali:
-quello storico, relativo a fatti avvenuti secoli prima,
-quello per tenere buoni i bambini
-quello di cronaca e storia per fatti risalenti a qualche decennio,
-quello fantastico riguardante miti e leggende
-le affabulazioni di gente fantasiosa
I più gettonati erano:
-i racconti sui briganti; Priscente era una delle glorie paesane ed innumerevoli erano i racconti sul suo “trìsoru” nascosto “nta cùpa i nù fàgu”.
-gli spiriti, di boschi e case, detti “monacieddhi” generalmente dispettosi, inafferrabili e depositari di segreti su tesori nascosti;
-disavventure tragicomiche con protagonisti famiglie o singoli individui di San Donato;
-defunti che sotto mentite spoglie verificavano la rettitudine ed i comportamenti di familiari e parenti;
-complicate storie di vita relative ad amori contrastati, matrimoni infelici, “jstimi mannati, risciùti e rinnùti” perché si diceva in paese “ù gabbu rescìdi e ra jstima crìscidi”;
-tesori che una volta rinvenuti, davano effimera ricchezza ed infelicità;
-lugubri storie di omicidi, tradimenti e vendette;
-storie di sacrifici, morali e materiali, praticati per rinvenire tesori nascosti o per arricchirsi immeritatamente e con la frode.
A parte le parmarie per i bambini, e quelle su alcuni personaggi fantastici, (cito papponi, mammoni, l’uomo lupo, l’uomo nero, papanicola, la befana, fantasmi e spiritelli), tutti gli altri racconti, nel bene e nel male, avevano come protagonisti, vittime, o coinvolti a vario titolo, i sandonatesi.
Nelle serate invernali, per stemperare le atmosfere a volte cupe dei racconti, era uso proporre indovinelli, destinati ai più giovani per la soluzione. Alcuni narratori, per testare l’uditorio e prendere in giro i soggetti più sensibili, nella formulazione dell’indovinello, generalmente, non si peritavano dall’inserire riferimenti di natura sessuale. Naturalmente, non tutti gli indovinelli potevano avere natura parolacciosa. Il narratore quando proponeva “ ù cchì gghè” che aveva riferimenti pruriginosi, salvava le apparenze premettendo: “ù dìcu senza malìzzja”
Cito ad esempiodi indovinello pruriginoso: “Ntà nu lòcu scùru, ccè nnù fùnnu, chi tàta ccì adùradi, mancu a nnù sàntu. Tèni mmanu nà cosa lòngha e lìscia e ddhà nfìladi addhùnni pìscia”. Qualche faccia manifestava un lieve rossore ed era buona norma non ridere sguaiatamente, specie se femminucce, e dare la soluzione senza “parlà scùstumatu”.
Cito un indovinello”normale”: “trìpanu d’acqua e càvudara ì linnu, ghè chjna ì carni umana e bbà gridannu”.
Altro indovinello, destinato ai “quatrari”: “cìmpi ciàmpi jia ppì bbia, mùssu nìvuru ddhj currìa. Sì nunn’ éra ppì gàmmi storti, cìmpi ciàmpi ghèra morta.
Novembre 2011
Minucciu
1 commento
Nu spassu.