Luigi Bisignani
E verissimo che ci sono tanti termini che lasciano tracce senza averne capito il significato,
soprattutto quando si tratta del nostro dialetto sandonatese.
Il nostro amico “Minucciu” nella sua ultima ricerca su un significato che molti abbiamo sentito almeno una volta ma certamente, siamo in molti a non aver cercato di capire il vero significato,ci chiarifica tramite questa sua ultima ricerca su cosa vuol dire il termine:
U’ bàilèsciu
Non so a quanti “quatràri” della mia generazione è accaduto di sentire taluni termini del dialetto sandonatese e rimanere confusi per non averne compreso appieno il significato.
A chi scrive ciò è capitato quando aveva circa sei anni, ascoltando il racconto relativo “à nnà disgràzzia” nella quale era incappata ad una donna del vicinato, incinta e prossima al parto, la quale, mentre trasportava “nà còddha ì castagni, ghèradi scìfulàta supa ù jèlu nnànti à quìtu ì bàjlèsciu”.
Più che il dramma legato al parto indotto dal trauma, mi colpì il termine “bajlesciu”, parola fino ad allora a me sconosciuta e che assunse da subito significato misterioso ed oscuro, ma non privo di un certo fascino.
Sul termine ci fantasticai parecchio e feci una marea di ipotesi. Di li a non molto conobbi zìu Giùvànni ì bàilesciu e realizzai che il termine era il soprannome di una famiglia sandonatese di commercianti, ma continuava comunque a rimanermi “oscuro e misterioso” e tale rimase negli anni a venire e fino a quando non mi schiarii le idee leggendo un testo di storia medievale.
Partendo dal periodo storico più prossimo al nostro e risalendo nel tempo risulta che, a cavallo fra XVII e XIX secolo, presso tutte le “universitas” (città, terre e castelli) del “regno delle due sicilie” e quindi anche in San Donato, erano ancora in vigore gli “statuti della bagliva”, un complesso di regole istituite dai normanni e definite da taluni giuristi “monumenti del diritto municipale” ed ossatura attorno alla quale si sviluppò la seppur limitata potestà municipale.
Tale raccolta di norme, non ebbe dignità pari agli statuti comunali (in vigore nelle autonomie del centro e nord Italia), né l’importanza delle “consuetudini” (vigenti presso molte comunità del sud), questo nonostante che gli “statuti della bagliva” avessero radici in antichi usi e costumanze e potessero a buon diritto essere considerate norme di diritto civile-penale e politico-amministrativo, in vigore presso le popolazioni del regno del sud, sia prima, sia dopo l’emanazione del “Codice federiciano di Melfi”, al quale comunque sopravvissero fino all’entrata in vigore delle leggi napoleoniche.
Dette norme erano collegate alla figura del “bajulo”, derivato dall’omonimo termine latino che indica “colui che porta, che regge”, per similitudine col gravame derivante dell’esercizio di pubblici poteri e dagli incarichi attribuiti a detto funzionario regio.
Le “baglive” (abolite con legge 22.5.1808, n°153) erano le giurisdizione territoriali del balivo (o bajulo), un pubblico ufficiale di nomina regia, al quale, in epoca medievale, il sovrano delegava autorità su di una porzione di territorio.
Detta figura istituzionale fu di ambito locale-comunale sotto Roberto il Guiscardo, il quale riunì nell’ufficio della bagliva le competenze di quegli ufficiali regi che rappresentavano il sovrano presso le comunità locali (le università), ma avevano anche funzioni di magistrati di giustizia.
Fra altre mansioni, riscuotevano tasse e gabelle avvalendosi di ausiliari, i bajularii la cui funzione, nel parlato del nostro paese, venne espressa col termine dialettale “bajlesci”.
Nella burocrazia angioina il termine baiulus è attestato in documenti dal 1269 in poi ed era riferito al funzionario regio che amministrava le rendite, i censi ed i tributi del sovrano.
Sotto l’aspetto amministrativo i Baglivi svolgevano compiti di polizia urbana e rurale, riscuotevano vari diritti, eseguivano multe ai proprietari di animali che avessero arrecato danni ai fondi altrui ed esigevano le pene in danaro da quanti avessero fatto uso di falsi pesi e misure. Era competente per i reati contro il patrimonio di entità non superiore ai tre ducati e si occupava anche delle cause criminali di lieve importanza come quelle per offese, bestemmie e piccoli furti.
Per inciso, la bestemmia all’epoca veniva considerata piaga sociale e fortemente combattuta con tutti i mezzi.
Un articolo negli statuti della bagliva recitava: “Se qualcuno abbia bestemmiato il nome di Dio onnipotente o della Vergine Maria paghi alla Curia un augustale, e per gli altri Santi due Tareni.
Si concede solo per la prima volta. Se, invero, la bestemmia sia stata ripetuta si osservi il tenore della Costituzione e delle Prammatiche del Regno.
E’ molto interessante sapere che le Prammatiche Aragonesi del 1481 e del 1483 prevedevano, per gli incalliti bestemmiatori la recisione della lingua e il sequestro di 1/3 dei beni.
La “bagliva” (o baliva), era una tassa non periodica, associata al controllo degli attrezzi utilizzati per il peso degli aridi e per determinare il volume dei liquidi ed anche l’imposta per l’applicazione di bolli alle bilance, alle stadere e alle caraffe, ciò in base alle unità di misura locali ed a salvaguardia dei diritti dei consumatori.
Con lo stesso termine si intendeva anche una circoscrizione territoriale (e per certi versi anche amministrativa), che racchiudeva nel suo perimetro due o più Casali confinanti ed il nome al territorio traeva origine dal toponimo del casale principale.
La Bagliva era una “Magistratura di grado inferiore”, istituita da Ruggero II nel 1140, e composta da un Baglivo, (di nomina regia per le terre demaniali e di nomina baronale per le terre feudali), da un Giudice e da un Mastrodatti (amanuense detto anche Mastro d’atti.)
Quest’ultima figura, nell’antico Regno di Napoli, indicava il funzionario originariamente addetto alla redazione e custodia degli atti ed in seguito ebbe anche funzioni giudiziarie come supplente dei giudici.
Questi “uffiziali locali” avevano funzioni di magistrati, rappresentavano il potere sovrano e rendevano giustizia in ciascuna comunità, ma erano anche “uffiziali dell’ordine finanziario”, che riscuotevano dazi ed imposte dovute al sovrano, quali quelle per le composizioni, le ammende, le confische e le pene tassate a danaro.
Nell’esercizio della giustizia civile incameravano al fisco regio una parte dell’oggetto di lite come «la vicesima o la tricesima»
La giustizia baiulare era affittata o ceduta non solamente ai baroni (e non come un cespite feudale), ma anche alle Università e talvolta, in città non feudali, anche a privati cittadini.
Nel codice normanno-svevo di Melfi viene resa più evidente e più ampia la parte giuridica dell’uffizio del bajulo, che però non perde il suo carattere finanziario. Giudica su tutte le cause civili, reali o personali, che non siano feudali. Per le cause criminali, esclusi i misfatti che portino a pena corporale o a recisione di membra, ha competenza dei minimi furti e dei minori delitti e di quegli episodi di piccola criminalità che erano soggetti a pena di composizione o di ammenda.
In base a detto concetto, Federico II, riconobbe ai bajuli il diritto di rendere giustizia per danni recati ai poderi da animali e riconobbe che spettasse loro riscuotere le pene (ammende) dai frodatori di pesi e misure, nonché l’esecuzione delle pene imposte dai bandi. Diede loro l’obbligo di sorvegliare la misura delle assise, cioè dei prezzi al consumo.
Il bajulo ebbe alle dipendenze giudici e notai quali “assessori” coi quali costituiva la «Corte della bagliva» e di fatto amministravano giustizia senza distaccarsi dal concetto primario dell’ufficio che originariamente non era quello di rendere giustizia, ma entrava invece nelle relazioni e nelle competenze, ancora indeterminate, per l’amministrazione dei dazi e delle gabelle, che il “popolo dell’università” (municipio) pagava al re.
Sotto i normanni il bajulo amministrava le fonti di redditi ordinari e generali che i re traevano dal commercio delle derrate, dall’esercizio di certe industrie, dall’uso delle proprietà del demanio e quelli derivanti da contribuzioni straordinarie e feudali.
La terra che non fosse infeudata, che non appartenesse in allodio o al cittadino, era del demanio pubblico, cioè del re, perché all’epoca vigeva il diritto del “nulle terre sans seigneur”.
Sul demanio le popolazioni avevano diritti di uso (entro i limiti delle consuetudini del luogo) per i quali corrispondevano un reddito nella misura delle consuetudini stesse e che fu compreso sotto le varie denominazioni di herbagium, glandaticum, forestagium, jus affidaturae.
Al commercio al minuto appartenevano la dohana e il jus fundici, il macellatico e più generalmente il plateatico che si riscuoteva su tutto ciò che si vendesse al minuto nel mercato.
A questi si aggiungevano il dazio sui pesi e misure (catapania), il dazio del portatici (portolania), e l’altro sui passi sulle strade (pedatico).
Questo era complesso di dazi ordinari che nelle terre del reame erano amministrati dai bauli.
Il bajulo normanno non era un semplice esattore, ma piuttosto un amministratore dei proventi al fisco perché doveva mantenerli, aumentarli e non poteva sottrarsi agli obblighi che si connettono col diritto all’ imposta, al quale corrispondeva l’obbligo di un servizio pubblico.
E come al dazio sui passi e sui ponti corrispondeva l’obbligo di mantenerli, di sovraintendere alla custodia di essi e alla sicurezza delle strade.
Il dazio alle porte conferiva il mantenimento delle mura; quello sui pesi e misure, sulla minuta vendita, o plateatico o beccheria, supponeva l’obbligo della polizia sanitaria e della polizia annonaria, quanto a giustezza di prezzo.
Il dazio sul forestagio, sull’ erbagio e l’affidatura, aveva quale corrispettivo la sicurezza degli animali, la garanzia dei diritti sulle proprietà comuni e dei diritti campestri delle popolazioni, benefici dai quali erano esclusi i forestieri
Questo esercizio di doppia polizia e di doppia giustizia, il bajulo l’amministrava per mezzo del bannum (editto od ordinanza), bandita a voce pubblica e poggiata alla sanzione di una pena pecuniaria. Un filo diretto collegava la potestà di “ponere banna” coll’uffizio di amministratore dei proventi del fisco e diveniva strumento per accrescere i redditi fiscali e non di meno potestà pubblica a garanzia dei dritti privati.
Dagli angioini in poi l’importanza dell’uffizio bajulare venne scemando perché il concetto della giustizia cessò di essere un diritto strettamente collegato ai proventi patrimoniali.
Per le comunità sorsero altri uffici, che ebbero giurisdizione civile e penale la cui funzione limitò ed assorbì in parte quella dei bauli, perché le attribuzioni finanziarie passarono ai secreti mentre la giurisdizione civile si trasmette ai magistrati. L’ordinamento regio delegò la gestione a nuove figure giuridico-amministrative quali i capitani, i mastro giurati e nei tempi aragonesi, i governatori.
Con gli angioini i capitani sono stabili generalmente in tutte le terre abitate. Hanno potere di imperio, amministrano la giustizia criminale ed assumono la rappresentanza politica del sovrano. Presso di loro “ma già in basso luogo e dato in fitto resta l’uffìzio bajulare”.
Al bajulo (ecclissato e con le funzioni assorbite da autorità maggiore), non restò che la parte della giustizia penale derivante dalla pubblicazione di bandi relativi all’amministrazione di quei dazi che aveva il carico di riscuotere ed entro brevi limiti, un frammento di giurisdizione civile.
La “diminuzio” dell’uffizio bajulare derivò, innanzi tutto dal modo ordinario della suo nomina. L’ufficio di bajulo (non dimentichiamo era principalmente amministrare un reddito), fin dai tempi normanni era assegnato dal Camerario “sive in credentiam, sive in extalium” (cioè in fitto a prezzo fisso ovvero a credito per quel tanto che rendesse).
Per quei primi tempi l’affitto ad extalium era l’eccezione prevista nelle costituzioni fridericiane che, imponendo ai bajuli l’obbligo del giuramento all’inizio del loro uffizio, dettava che espressamente giurassero di riscuotere, senza diminuzione, le pene e le multe che avessero imposto le leggi.
Ma il sistema dell’affitto diventa provvedimento ordinario sotto gli Angioini, i cui pubblici archivi contengono innumerevoli carte per l’affitto delle bajulazioni di terre e città, conferito ad asta pubblica da rinnovare ogni anno.
E la bajulazione data in fitto comprendeva tra gli altri redditi locali, anche il «bancum justitiae cum bannis jure impositis.
L’amministrazione di tali redditi, data in fitto all’asta pubblica, toccava tutta la vita economica di una popolazione e segnatamente quella rurale. Pertanto il contratto di affitto diveniva impresa aleatoria per l’assegnatario del bando di riscossione dei dazi.
S’immagini dunque le diligenze inquisitrici, le astuzie fiscali, le angherie, le ruberie e le prepotenze di “pubblicani”, che avevano anche la potestà di ponere banna.
Un freno all’ingordigia poteva essere nei Giudici od assessori (nominati dalle Università) ma, rammentando “l’umile condizione di cotesti magistrati pedanei, e come essi fossero pagati dallo stesso bajulo del loro stipendio di pochi soldi” si può argomentare “come essi fossero di ben futile guarentigia ai popoli e un troppo inutile freno all’ingordo «imperio» dei pubblicani”.
A ciò aggiunto che la misura delle esazioni, i tempi e i modi delle riscossioni, i privilegi, le penalità, le composizioni, le prescrizioni, erano non già determinate in leggi scritte, ma affidate alle consuetudini locali, le quali “se bastano a reggere le relazioni de’ popoli in uno stadio d’infantile civiltà, non bastano, quando dallo intreccio delle sviluppate relazioni sociali lo spirito avverte che manca alla consuetudine il primo requisito di ogni legge, che è l’obbiettività certa e determinata”.
La “diminuzio” dell’ufficio del baglivo, non più di nomina regia ma “adeguato “alle esigenze economiche di una cura regia rapace ed avida ed alle realtà locali, avvenne sotto gli angioini che sminuirono le competenze della antica “magistratura” trasformandolo da organo di stato ad incarico “in affitto”, trasformando così l’ufficio del bajulo in quello di un “gabelliere”.
Questo è quanto la storia ci narra.
“Mì piàceradi àppurà sì zìu Giuvànni ì bàilèsciu sàpiàdi quànta storia s’àmmucciàvadi àrriètu agnòmi dà ràzza sua”
Minucciu