Bisignani Luigi
Ricevuto e pubblico con grande piacere,questo studio storico di Cesare De ROSIS
MEDIOEVO AUREO. LA STAUROTECA DI COSENZA NELLA PRODUZIONE ARTISTICA DELLA FASE NORMANNO – SVEVA
di Cesare De ROSIS
Verso la metà del XIX secolo un architetto francese, Charles Rohault de Fleury, che dedicò gli ultimi anni della sua vita all’archeologia cristiana, si prese la briga di prendere in esame uno per uno tutti i frammenti della croce catalogati del mondo, ne calcolò il volume comparando il tipo di legno a cui appartengono. Il motivo di questo bizzarro e impegnativo studio consisteva soprattutto nell’individuare l’autenticità dei frammenti stessi. A tal proposito rievoco un vecchio, ma quanto mai appropriato, aforisma di Umberto Eco: “Molte reliquie che si conservano a Costantinopoli sono di dubbiosissima origine, ma il fedele che le bacia sente emanare da esse aromi soprannaturali. È la fede che le fa vere, non esse che fanno vera la fede.” Il culto della Vera Croce, diffusosi in tutto il mondo cristiano, affonda le radici a Gerusalemme, a seguito dell’inventio Crucis da parte di Elena, madre dell’ imperatore Costantino. Con lei ebbe inizio anche la dispersione di reliquie e reliquiari.
Le stauroteche realizzate in un periodo indicativo che va dal VI secolo alla fine del secolo XIII sino a giungere in qualche caso ai secoli immediatamente successivi, possono essere suddivise per tipologia in cinque gruppi, mutuati dagli studi di Anatole Frolow: stauroteche in forma di croce ad una traversa ed in forma di croce patriarcale, stauroteche a cassetta con coperchio scorrevole, “a pace” (inserite in teche sostenute da un piede o da una base, spesso di fattura posteriore), ed altre di forme varie. Ogni gruppo inoltre può essere ulteriormente scisso e ricomposto seguendo altri criteri, dando così vita ad altri sottogruppi basati su elementi differenti quali, ad esempio, l’ambito cronologico, l’area di produzione e la provenienza, le reliquie custodite o le tecniche di lavorazione, utili per indagare e confrontare insiemi sempre più circoscritti e meglio definiti. Da uno scientifico lavoro di Margherita Spinucci del 2011 evidenziamo in Italia la suddivisione delle 85 stauroteche individuate: 41 stauroteche in forma di croce ad una traversa; 24 reliquiari in forma di croce patriarcale; 9 stauroteche a cassetta; 4 reliquiari “a pace”; 7 di forme varie. Tra queste si annovera la Stauroteca di Cosenza. Angelo Lipinsky assegna la stauroteca cosentina, di solito considerata come prodotto di genuina arte bizantina, alla scuola artistica di Palermo nel periodo più florido della dominazione normanna, ossia la prima metà del sec. XII sotto la corona di Ruggiero II. La croce-stauroteca è stata attribuita dalla tradizione a Federico II, perché ritenuta un dono del sovrano in occasione della riconsacrazione della cattedrale di Cosenza nel 1222 (Santagata, 1974). In realtà, è stata realizzata in età tardo-normanna nei laboratori regali siciliani ed è plausibilmente entrata in possesso di Federico II assieme al composito tesoro dei suoi predecessori (Dolcini, 1987 e 1995). Già Mario Rotili nel 1980 era di questo avviso ritenendo che la stauroteca di Cosenza, modellata nella Sicilia ormai normanna, racchiudesse nei castoni della sua croce greca le espressioni degli smalti bizantini.
Emblematico e significativo, nonchè già di per se programmatico, è il titolo che Giorgio Leone assegna ad un suo testo: Stauroteca. Croce bizantina o croce di Federico, edito nel 2007, dopo che l’anno precedente aveva pubblicato un altro significativo e simile contributo: La Stauroteca di Cosenza. Una scheda per un manufatto del Tiraz palermitano del secolo dodicesimo, Napoli: Paparo Edizioni, 2006. Gli studi sono diventati nel tempo più fluidi e documentati dopo che, nel 1984, Maria Pia Di Dario Guida portò, in merito, alla luce uno dei contributi più significativi della storiografia storico – artistica della Calabria. Il dibattitto era concentrato sul problema inerente alla produzione della Stauroteca: se essa fosse da individuare a Costantinopoli, o in Sicilia nel Tiraz, oppure a Costantinopoli per quanto riguarda gli smalti e a Palermo per la parte orafa. Quest’ultimo punto ha registrato le più ampie concordanze da parte della critica, sia nel riconoscere un’attività dell’Opificio reale di Palermo con caratteristiche precipue, sia nel ricollegare ad esso la Stauroteca. Più volte è stato dimostrato come essa si leghi ad altri oggetti prodotti nel Tiraz, fra cui la cuffia di Costanza, la stauroteca di San Leonzio a Napoli, la croce di Velletri, le coperte dell’Evangelario del vescovo Alfano di Capua.
Secondo altri studiosi, scrive M. Stirparo, il prezioso reliquiario cosentino sarebbe anche la “crocetta” presentata a Carlo V, perché fosse da questi baciata, il 7 novembre 1535, vale a dire nel giorno dell’ingresso solenne in città dell’imperatore reduce dalla vittoriosa battaglia contro i Saraceni. È di questo periodo il piedistallo (simile ad un coevo Calice conservato nel medesimo Museo diocesano) che sostiene la Stauroteca: opera argentea dorata di stile tardo gotico, realizzata in Spagna e donata dal cardinale Taddeo Gaddi. Come tante altre grandi e preziose opere custodite in Calabria, anche la Stauroteca di Cosenza era entrata nel grande calderone dell’indifferenza e dell’abbandono fino a quando, quasi un secolo fa, la critica non si impose e la fece tirar fuori e darle la giusta riabilitazione. Nel 1896 fu esposta alla Mostra di arte sacra di Orvieto; nel 1905 esposta nella Casa Madre dei Basiliani-Cistercensi di Grottaferrata, nel 1931 a Parigi e a Roma nel 1939. Dagli anni Settanta è iniziata realmente la sua fortuna critica – attraverso nuove ricerche e ultime esposizioni – dopo il restauro operato nel 1982 presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, sotto la proposta di Maria Pia Di Dario Guida e la disponibilità di Mons. Dino Trabalzini.
Le quattro estremità della Croce si allargano in cerchi a forma di medaglioni ornati da quattro castoni ed il tutto è decorato da smalti, alamandini, perle e oro filato. Tali medaglioni raffigurano, contornati da fili perlinati, sul recto, al centro, la bella ed imponente figura del Cristo crocifisso sul Golgota (nella tipologia del Cristo doloroso) e l’asta trasversale della croce reca, in greco, la parola “Crocifissione”, i due medaglioni laterali, invece, raffigurano, a sinistra, la Vergine Addolorata e, a destra, san Giovanni Battista secondo le indicazioni dell’iconografia bizantina detta Deesis; sul medaglione in alto vi è l’Arcangelo discoforo in quanto capo delle Milizie Celesti e su quello in basso vi troviamo la particolare rappresentazione della “Etoimasia”, cioè la “preparazione al trono” per il Giudice eterno. Sul verso al centro è il Pantocratore ed intorno i quattro Evangelisti Giovanni, Matteo, Luca e Marco i quali, però, rispetto alla tradizionale iconografia bizantina, sono privi dei loro inseparabili simboli: l’aquila, l’angelo, il toro e il leone.
La rarità e la preziosità della Stauroteca di Cosenza è data dalla tecnica, detta cloisonnè, utilizzata per la sua realizzazione. Tale metodo prevede l’incastonatura di pietre preziose e di paste vitree entro un reticolato di cellette ad alveolo, tecnica, questa, che rimanda la sua origine all’alto medioevo. Furono infatti i barbari, in particolare gli Unni nel IV secolo, ad introdurre in Europa tale tecnica e, da allora, venne largamente utilizzata nella realizzazione di oggetti appartenenti in particolare all’oreficeria. Alla bellezza del cloisonné, impreziosito dai bellissimi colori delle paste vitree, si unisce la filigrana che circonda l’intero reliquiario con la sua trama sottile di intrecci intrattenendo la luce e riflettendola sui bellissimi smalti che sono incastonati sulla lamina d’oro. La Stauroteca di Cosenza, per l’alta qualità stilistica e per l’elaborazione iconografica, è un interessante esempio dell’arte dello smalto nella tarda età medio bizantina. Sussistono infatti, come evidenzio M. P. Di Dario Guida, reali affinità estetiche, oltre che stilistiche, con i bellissimi mosaici di Monreale e proprio tali legami consentono di datare l’opera alla fine del XII secolo.
Il manufatto cosentino può essere, secondo chi scrive, considerato una originale espressione dell’arte comnena (rinomata dinastica bizantina portatrice di uno stile più raffinato ed elegante rispetto a quelli precedenti) e si può anche supporre che l’opera potrebbe essere mano di maestro costantinopolitano chiamato a Palermo nella tecnica dello smalto alveolato, uno dei tanti esempi dell’impiego di artisti bizantini al di fuori dell’impero d’Oriente.
Cesare De Rosis
1 commento
Apprezzo molto. Grazie!