Luigi Bisignani & Minucciu
Premetto che quello che leggete é solo una prima parte,per questo leggerete CONTINUA alla fine, e ci sarà un seguito ben presto.
Una “pàrmaria” della mia infanzia riguardava fatti avvenuti in paese nella prima metà del 17° secolo, quando, nel corso di una rivolta, i nostri antenati uccisero il Duca ed un suo cugino, causando così l’estinzione della famiglia dei Duchi Sanseverino di San Donato (l’unica erede morì prima dei dieci anni). Molto si è scritto e discusso su circostanze e cause della rivolta e del successivo massacro di decine di sandonatesi, “vittime” della reazione di un “potere” che vacillava sotto l’urto di frequenti ribellioni. Uno dei moti, avvenuto nel nostro paese qualche tempo prima dell’agosto 1648, aveva procurato danni al palazzo baronale tanto da renderlo inabitabile, visto che il duca fu ucciso “àra chjàzza vècchia”presso la casa di un suo “familiare” tale Francesco Arnone (il termine all’epoca indicava un vassallo, un collaboratore ovvero un servitore).
Anche l’origine dei moti è controversa e non è stata mai chiarita del tutto, sia nella versione tramandata dalla “memoria popolare”, sia nella versione fornita da scrittori e testimoni dell’epoca. Una cosa certa appare chiara. All’origine dei moti vi fu un abuso, un mancato rispetto delle “prammatiche” (le leggi dell’epoca).
Che in quel periodo sopruso e prevaricazione del feudatario o dei suoi vassalli o “familiari” fosse cosa normale è storicamente accertato. Che il popolo cogliesse ogni occasione per alleviare condizioni di vita durissime, anche ponendo in atto condotte illecite e violente, è cosa risaputa. In quel che accadde in San Donato nell’estate del 1648, fra i tanti protagonisti, a mio modesto parere, la giustizia è stata la grande assente.
E quale fosse lo stato delle cose, nel loro ordinario correre, nella vita civile e nell’amministrazione della giustizia, lo ricaviamo dal volume “Il regno di Napoli” descritto nel 1713 da P. M. Doria .
Tralascio i temi della giustizia civile e penale (che l’autore ci dice essere in mani di nobilastri incompetenti e corrotti elevati al rango di Giudici), per focalizzare quel che accadeva in una piccola realtà come quella sandonatese.
Trascrivo integralmente il testo del Doria nel capitolo dedicato alle Udienze provinciali e Corti baronali: “Il popolo del Regno, più docile di quello di Napoli alla massima divide et impera, trovasi, per la soggezione a tanti diversi baroni, come diviso in tanti diversi e minuscoli Stati, e quindi privato della forza del numero. Avvezzo ad una servitù durissima verso il barone e snervato d’ogni virtù, non temibile se non quando in campagna fa corpo di fuorusciti, questo popolo è destinato a portare tutto il peso necessario ad alimentare non solo la rapacità della nazione dominante, ma tutti quegli ordini ch’essa si è associato per dominare senza pericolo. Serve il barone, paga, agli ecclesiastici ed ai civili, i fiscali lor mandati dal governo, sopporta le angarie dè ministri, le imposizioni straordinarie. Tutto il peso della tirannide grava sul povero contadino, ridotto come la bestia, che non gusta mai il cibo che porta addosso. La miseria dé contadini è tale che solo nelle gravissime ed estreme malattie toccano pan di gran; di solito non si nutrono che di pane di frumentone e di erba condita con sale ed olio. Di carne e di altro cibo, non hanno neppur l’idea.
Il Regno, diviso in 12 provincie, è governato da 12 tribunali chiamati “Udienze, residenti in città regia: Cosenza, Catanzaro, Matera, Lecce, Bari, Lucerà, Chieti, Aquila, Montefusco, Salerno. La Terra di Lavoro, dov’è la capitale, ha un Commissario di Campagna (giudice della Vicaria) con diritto di vita e di morte, conferitogli dal Carpio a cagione dei fuorusciti, senz’altro superiore che un delegato, ministro del Sacro Consiglio (scelto anch’esso dal vicerè).
A capo dell’Udienza sta un Preside, uomo di spada, per lo più militare. Non ha voto, ma carcera e scarcera a suo talento, governando la polizia della provincia. Sottoposti a lui sono un caporuota, tre uditori, un fiscale, un avvocato dè poveri, un intero tribunale. Incombe all’Udienza discutere in appello le sentenze delle Corti baronali e delle corti dè Governatori di città e terre regie. Spettando à baroni le prime e le seconde cause (ed a qualcuno anche le terze). Un delitto, prima di giungere al tribunale regio, è giudicato due volte dà ministri baronali, prima dal Governatore e poi dal Giudice di seconda causa, creati l’uno e l’altro dallo stesso barone. Dalle sentenze di què giudici, il vassallo può appellare all’Udienza, da questa alla Vicaria, e dalla Vicaria al Sacro Consiglio. Ma si può abbreviare. Il barone, avendo il diritto di grazia, può subito transigere col reo e commutare la pena in multa; o delega la causa all’Udienza, la quale, sentenziando come delegata, non soffre che un solo appello, al tribunale di Napoli. E dopo questo, la sentenza si esegue.
L’ autorità dè baroni cessa nei delitti di strada pubblica, in quelli che riguardano il pubblico erario, nè debiti contratti nella capitale e in tutti i reati di Stato. Pè primi, il preside ha facoltà d’imprigionare qualunque vassallo del barone; pè secondi, procede la Camera della Sommaria, e, pè debiti, la Vicaria spedisce esecutori nelle terre baronali, senza che il barone possa impedirlo.
….continua.
Minùcciu
1 commento
E’sempre un piacere immenso leggerti.