Luigi Bisignani & Minucciu
Jùri ì spàrtu.
’Onciàsa màncu pinzà àmmì dì nòni, cciàiu nà brìcazziùni. Con questa affermazione secca e perentoria, “zìa Gàngiulina” mi aveva messo all’angolo e chiuso ogni possibilità di replica. Contraddire mia madre non era né facile né semplice per via del suo carattere risoluto che, all’occorrenza, sapeva e poteva divenire autoritario.
Ma non era questo aspetto della sua personalità che mi frenava dal contraddirla. Era il profondo rispetto verso i genitori ed in generale verso le persone adulte (“i cchjù grànni”), così profondamente radicato, fra i giovani della ma generazione, tanto da impedirmi repliche inutili ed indurmi ad ubbidirle, sebbene questo controvoglia ed a malincuore.
Ero tornato a casa per un breve periodo di ferie. Saputa la cosa, una famiglia verso la quale mia madre si sentiva obbligata, le aveva chiesto se poteva affidarmi “nà còsicèddha” da recapitare a dei parenti e mia madre, senza neanche consultarmi, aveva garantito “cà ghèra còsa fàtta”, sicura della mia disponibilità, benché mi sapesse contrario ai “recapiti”, questo da circa un paio d’anni, quando, “ppì ffà nù pìacìri”, m’ero dovuto sobbarcare di un fagotto d’una trentina di chili (all’epoca viaggiavo in treno). Era anche da aggiungervi che per consegnare il pacchetto necessitava una intera giornata avendo da percorrere un’ottantina di km fra autobus e treno. Meno male che i compaesani erano persone giudiziose e stavolta il pacchetto risulto leggero e di poco ingombro.
Non conoscevo i “parenti” ai quali dovevo recapitare il fagotto e mia madre mi spiego che era diretto ad una “sùari cchjù grànni”, via dal paese da molto. Non aggiunse altro, né io chiesi ulteriori particolari.
Un paio di giorni dopo la fine delle ferie, recapitai il pacchetto. Venni ricevuto da una signora anziana gentilissima ed affabile, la quale insistette per trattenermi a pranzo, agendo come solo una autentica sandonatese poteva e sapeva fare.
La donna viveva assieme ad un figlio d’una sessantina d’anni, pallido, alto e segaligno, invalido perché privo della vista, causa un “incidente” accadutogli in paese quando era ancora adolescente. Questa almeno fu la spiegazone fornitami.
Come accade fra sandonatesi, discorrendo delle cose paesane, la signora ad un certo punto si fece sopraffare dai ricordi e, fra altre cose, mi mise a parte delle vicende accadute al figlio.
“Quàntu sù bbèlli”, diceva chiunque li notasse. Lei a ricamare ed a guardare sottecchi. Lui, dalla casa di fronte nei pressi della finestra, mentre tentava di darsi un contegno, ad intendere d’essere capitato lì per caso. Entrambi però “cuvàvavu” e gli sguardi che si scambiavano divenivano ogni giorno “più intensi”. Avevano quattordici anni lei e sedici lui, età che, per quel periodo, era quella giusta per iniziare a “pensare da grandi”. I due giovani, non essendosi dichiarati, avevano un comportamento prudente ed evitavano qualsiasi gesto compromettente. Nonostante ciò, “ù fìlarièddhui” fu presto noto nel vicinato e venne apprezzato in maniera sincera e scevra da quelle punte di malignità e veleno che, nel nostro paese, così come ovunque, da sempre hanno fatto da corollario ad ogni manifestazione di simpatia amorosa. Non che i sandonatesi covino invidia. E’ che taluni, detto senza intenzione d’offendere, per indole, “òn pènzanu sùlu arì càzzi sùa” ed inevitabilmente vanno a condire quelli altrui. Questo, detto con una punta di “sana cattiveria” verso i miei compaesani.
Qualcuno del vicinato però, tanto per non perdere l’abitudine, premurosamente “avìadi apièrtu l’uòcchi” alla madre della ragazza, la cui famiglia, timorosa “ì finìsci sùpa à vùcca dò vìcinànzu”, impose la fine della storia con la raccomandazione “ì nòn fà ciuociuli”. Si convenne che “sà còsa ghèra sèria”, i passi da fare a tempo debito erano stabiliti dalla tradizione, ed a quella bisognava attenersi.
Le condizioni erano chiare e tutto restò liscio e tranquillo fino alla maledettissima estate, quando uno zio di Giùsippìna assieme alla famiglia, decise di ritornare in paese per la festa del patrono ed approfittare dell’occasione per trascorrervi un periodo di ferie.
Portò in paese due figli adolescenti, maschio e femmina, coetanei di Giùsippìna, con la quale legarono subito, specie il maschietto. La “frequentazione” suscitò gelosia e malumore in Francìscu che, da subito, vide nel cugino “dà nnàmuràta” non un parente ma un pericoloso rivale. La apparente “concorrenza” acuì l’inquietitudine di Francìscu che non s’affacciava più alla finestra per ammirare la sua bella, ma ci si avvicinava guardingo e di soppiatto, a spiare e sospirare per poi vergognarsene. Venti giorni durò la permanenza dello zio di Giùsippìna e la stessa durata ebbe l’inferno in cui Francìscu visse, divorato da invidia mista a gelosia e dubbi.
Il giovane decise di superare i fraintendimenti e dichiararsi, ciò in occasione della festicciola, che i cugini avevano organizzato per il compleanno di Gìusippìna, invitando coetanei del paese, fra i quali anche Fràncìscu. Per l’occasione si era preparato un discorsetto dolce e garbato, da sussurare alla ragazza durante l’inevitabile ballo. Ignorava che la stessa idea era maturata nella giovincella che intendeva manifestargli ciò che provava, ma non a parole (la morale dei tempi lo impediva), ma con gesti ed atteggiamenti che Franciscu avrebbe certamente capito.
Nel momento tanto atteso ed a contatto con la ragazza, Fràncìscu ebbe una forte emozione, avvertì una stretta allo stomaco ed ebbe un tremolio che lo scuosse tutto. La bocca divenne secca ed ebbe sudori freddi e sentore di nausea, mentre tutto ciò che gli stava attorno girava vorticosamente, tanto da dargli l’impressione di ballare sospeso a mezz’aria. Questo “malessere” durò per l’intero ballo, durante il quale non fu in grado di spiccicare una sola parola.
La ragazza interpretò il silenzio e l’atteggiamento “assente” di Francìscu come “disinteresse” nei suoi confronti, per cui, terminato il primo ed unico ballo col ragazzo, offesissima, ignorò Fràncìscu per il resto della festa.
Della occasione mancata il ragazzo ne fece una sua colpa grave che, col passare dei giorni, divenne un chiodo fisso. Non riusciva a perdonare l’essersi fatto sopraffare dall’emozione e per aver perso la sola ed unica occasione per rendere manifesti e concreti i sentimenti che provava per Giùsippìna.
La “vacanza” della parentela finì e la sera precedente la partenza. “A’ nù sfilàgghju c’àvìa lassàtu àra finestra”, nella penombra della stanza di fronte, Francìscu vide quel che non avrebbe mai voluto vedere, “Giùsippìna àbbrazzàta dò cuggìnu, ‘ntramènti sì vasàvanu”.
Era la fine. Il giovane in un misto di ira e disperazione non trovò di meglio che allontanarsi da casa e dirigersi “àra casètta ì fòra”, nelle proprietà di famiglia. Per qualche ora rimase a macerarsi nel dolore. Poi la rabbia per l’accaduto ebbe il sopravvento. Rovistò fra le masserizie in cerca di qualcosa con cui tornare in paese “armato” e vendicare quel che riteneva un affronto. Non rinvenne armi. Trovò invece un bidone dove il padre preparava “ù vìrdiràma” per la vigna e decise che, se un segno doveva essere lasciato, non era lui a dover marcire in galera, era meglio che la “fedifraga” annegasse nei rimorsi. Perciò bevve del verderame.
Soccorso per tempo e disintossicato, ebbe salva la vita. Della brutta avventura gli rimase, più che l’astio per la ragazza, il rancore verso se stesso e quel pallore, tendente al giallo, che lo marcò a vita e gli procurò il soprannome di “juri ì spartu”.
La famiglia, percepiti i sentimenti di vendetta che animavanmo Fràncìscu, per evitare che il giovane potesse fare altri “dammàggi”, sistemate alla bellemmeglio le proprietà, lasciò il paese. La partenza, “àra ggènti”, venne giustificata con la circostanza che il giovane accusava un preoccupante calo della vista e necessitava di cure specialistiche, che nelle nostre zone non poteva ricevere.
Nel giro di pochi anni, come era gia accaduto per uno zio paterno, Francìscu divenne completamente cieco e questo lo costrinse ad abbandonare gli studi. Tramite “conoscenze” venne sistemano come centralinista in un ministero, ove restò fino al pensionamento.
La “catena” di disgrazie, col tempo venne “coperta” da rassegnazione. Alla vecchia sandonatese rimase comunque una pena. Anche dopo tanti anni, Fràncìscu, verso l’imbrunire si avvicinava alla finestra, “guardava” fuori e sospirava. La donna riteneva che, sebbene la “tragedia” fosse lontana e come se nulla fosse accaduto, Fràncìscu “vedeva e sentiva” ancora la presenza dell’innamorata. In quei gesti ripetuti forse riviveva i momenti felici di quando, da ragazzo, si accostava alla finestra per “spiare” nella casa di fronte in cerca ì Giùsippìna.
Quando mi congedai, Francìscu era appoggiato allo stipite di una finestra col volto diretto al vetro, nella posa di chi fissa il vuoto col cosiddetto “sguardo perso”. Sussurrava, a mò di sommesso canto, quel che riconobbi essere i versi iniziali di un componimento in dialetto sandonatese, nel quale, il vecchio autore, pentito per aver vissuto “màlamènti”, aveva trasfuso in rima sentimenti di rimpianto. Contenuti e metrica erano pressappoco questi. “……..àru càmpà òddhj fà mài dìspièttu,/ òn tèni gàngha, ònci jì à càpadièrtu/ cà sì tì jùdicadi, ghàsi sèmpi tuòrtu./ Ghà cùnnannàtu àmmìa à càmpà dìmièrtu/ tàli à tròppa ì vùrdìca jìntà àll’uòrtu…….
Settembre 2015Minùcciu
2 commenti
Sarà sicuramente una grande festa…
Che spasso!Mi piace tanto leggerti,mi piace il tuo stile di scrittura,il modo in cui passi dall’italiano al dialetto.Questo racconto,mi ha fatto ripensare ad un romanzo che lessi qualche tempo fa:”Olive comprese”,credo che lo scrittore si chiamasse Sandro Vitali…Ciao Menuccio,al prossimo racconto.(Spero non vorrai privarmi di tale piacere)