Luigi Bisignani
Minucciu ci ha abituati con i suoi raccconti mensili ,raccolti sul tema di “Come eravamo” con storie e parmarie del passato,con personaggi che molti di noi abbiamo conosciuto.
Oggi mi ha inviato un’altra idea che trovo splendida : Cùmu putèra ghèssi (Come potrebbe essere).
Una bella ginnastica dal passato verso un futuro immaginario ,immaginario direte voi o realista? ai posteri l’ardua sentenza,chi vivrà vedrà.Certo constatando la decadenza ,nella quale si trova oggi il paese,possiamo veramente chiederci come sarà il paese fra 50 anni? Come pensa ed immagina Minucciu,peggio oppure se ci sarà un miracolo meglio di oggi?
Certo che qualcuno che é nell’amministrazione attuale, dovrebbe chiederselo,incominciando già a fare qualche convegno sul futuro del paese o nessuna riflessione si fa perché hanno già condannato il paese ? Non vorrei essere u picciunu do malaguriu,ma se si continua cosi debbo dare ragione all’immaginazione catastrofica di Minucciu.Per adesso,consolatevi, é solo un sogno,un bruttissimo sogno… ma che potrebbe diventare realtà !!
Se si continua a maltrattare il nostro, tanto amato, paese come si sta facendo, credo francamente, che ci sarà un ritorno verso il passato,come in questa foto.
(Luigi)
Ecco il racconto di Minucciu :
U’ prìfissùri.
Procedeva a fatica fra la flora che ricopriva quasi interamente l’antico abitato, del quale non esisteva quasi più nulla, a somiglianza di quei siti colpiti da gravi sismi e di cui restano solo macerie e polvere, avanzi che la natura riconquista per i suoi usi e scopi, ricoprendoli di vegetazione.
Era consapevole che, la sua voglia di sapere e conoscere, la sua curiosità verso il paesino ove era nato il trisavolo che aveva dato origine alla sua “ràzza”, non sarebbero state interamente soddisfatte. Dallo stato in cui l’abitato versava, difficilmente avrebbe identificato e visualizzato i luoghi descritti in alcuni documenti, che il trisavolo aveva archiviato e custoditi su supporto informatico (una vecchia usb) che aveva potuto leggere utilizzando un antiquato computer portatile, gia in uso dell’avo ed ancora miracolosamente funzionante.
Negli scritti e nei numerosi appunti vecchi di decenni, aveva preso cognizione della storia del paesino e della descrizione di luoghi, usi, costumi e tradizioni che lo avevano coinvolto ed affascinato. Ne era scaturita la voglia di rivedere la località di origine del suo ceppo familiare ed in questa decisione non era estranea la sua passione per storia ed archeologia, discipline per le quali era docente universitario, “nù prìfissùri”, come il suo trisavolo avrebbe orgogliosamente sottolineato.
Prima di intraprendere il lungo viaggio si era documentato analizzando tutto il materiale che il progenitore aveva “stipàtu” in un vecchio mobile in legno, “nù granaru”, ove erano custoditi libri, foto, riviste, pubblicazioni, il vecchio computer, la usb ed una tavoletta 1/25.000 dell’I.G.M. Da detti materiali aveva tratto utili indicazioni su ubicazione ed orientamento dell’abitato, orografia ed altimetria, toponimia di località e contrade, confini del territorio comunale.
Dalla contrada “Lìcastru” aveva confrontato lo stato attuale dell’abitato con quello risultante da una vecchissima foto panoramica. La vegetazione aveva lasciato relativamente libero e visibile ciò che restava “dà chièsia dà Mòtta”, “dà còsta dè Palìzzi” e di una porzione dell’abitato posto fra “ù Casàli ì vàsciu” e la chiesa arcipretale. Il resto del vecchio insediamento risultava coperto da vegetazione ad alto fusto mista a cespugli di macchia mediterranea
Del paese, di integro restava quasi nulla. Lo stato di degrado ed abbandono l’aveva già constatato visualizzando la zona tramite riprese satellitari. Le immagini le aveva confrontante con una piantina del paese a suo tempo disegnata dall’avo e sulla quale erano diligentemente annotati la viabilità ed il nome dei rioni. Al momento risultava che la parte est dell’abitato era “scìfulàta ‘ntà jùmàra” e le contrade “Lòggi, Spilùngura, Chjàzzètta, Chjàzza vècchia, Còsti ì Spàracìtu, Crùcivìa e Sàntu Cristòfaru” non esistevano più. La vecchia chiesa “dà Tèrra” era franata assieme a buona parte “dò chjànu dà Mòtta” e le case e la viabilità che confinavano con lo sprone roccioso erano state investite e ricoperte da detriti. “Acchianàta ì quìri ì Gàpa, ù Jùjùlu, ì Sìlichi, à Chjàzza nòva, quìru ì Pucciàni, quìru Artùsu e fìnu àra Siddhàta” erano sommerse dalla frana ed i detriti le rendevano impraticabili ed irriconoscibili.
E la restante porzione di paese non era in migliori condizioni. La quasi totalità delle case erano “pìrrupàte” e la vegetazione le aveva invase, coperte e nascoste, così come buona parte dell’abitato.
Da alcuni residenti “dò Bìviu” il docente aveva appreso che anche “ù pòntu dò Pantànu” era impraticabile perché parzialmente crollato. Per raggiungere il vecchio abitato doveva procedere, a piedi e la “strada” più agevole, visto lo stato dei luoghi, la tavoletta la indicava “ppì Sàntu Piètru, Madònna dè gràzzii” e poi per le zone di “Càrivòni, Pantàna, Sàntivardìnu, Sànt’Antòniu”. Da li poteva scegliere se procedere verso “ù Casàli” e quindi verso i ruderi della chiesa arcipretale oppure salire verso “ì Palìzzi e rà Tèrra” e quindi scendere verso ciò che restava “dò chjànu e dà chiàsia dà Mòtta”.
Scelse di recarsi prima alla chiesa della SS. Trinità che raggiunse a fatica inerpicandosi fra ruderi, macerie e folta vegetazione, così come gia detto. Della chiesa restava una porzione della base quadrata del campanile ed un muro sel medesimo lato. Il tetto, l’abside, la cappella gentilizia, il muro destro e la facciata erano un unico mucchio di calcinacci e l’interno era invaso da erbe ed arbusti. Aveva resistito allo sfacelo il solo altare del santo patrono, la cui statua era semi soffocata da erba infestante che ne aveva avvolto il busto. Restava scoperto il volto e la barba, mentre la testa era stata “arravugghjata dà grampiddhjna” che aveva trasformato la mitra in un turbante “e rù Sàntu, Ddìa pìrdùna, pàrìadi nù saracinu”.
“U’ prifissuri” si guardava attorno stupefatto e si chiedeva quale cataclisma poteva aver provocato tutto quello sfacelo e che fine aveva fatto la popolazione residente. Da un rapido conto, aveva stabilito che gli scarsi abitanti, distribuiti fra “Lìcastru e Bìviu”, non erano proporzionali con quelli sfollati dal vecchio abitato.
Preso da questi pensieri fece il percorso inverso fino a “Sànt’Antòniu” e si diresse verso il paese antico. La pietraia “dè Palìzzi” s’era conservata così come l’aveva descritta l’avo. Le case del rione Terra erano quasi tutte implose ma la viabilità fino alla chiesa risultava abbastanza praticabile. Giunto su quel che restava del pianoro da Motta, constatò che la vecchia chiesa era stata in parte trascinata a valle dal cedimento dello sprone, probabilmente non costituito da solida roccia, così come creduto e descritto per secoli, ma da un ammasso di grossi detriti, frutto di un antichissimo smottamento dai crinali “da sèrra i Sànta Crùci”. Restava la base del campanile che, in antico, altro non era che un lato della vecchia chiesetta, coeva ai primi abituri del nucleo trasferitosi sul pianoro attorno all’VIII-IX secolo.
La sua attenzione fu attratta da una roccia incorporata nella muratura dell’antica chiesa. Guardando meglio scoprì che qualcuno, con caratteri dell’alfabeto romano ed in maiuscolo, nella pietra aveva scolpito la scritta “DIVISERUNT SIBI VESTIMENTA MEA. A.D. -M M..” La data risultava incompleta e “ù prìfissùri” inizialmente ipotizzò un errato calcolo degli spazi da parte dell’autore che, calcolando male gli spazi, alla fine non aveva potuto completare la scritta. Poi suppose che qualcuno, interessato, avesse tentato di cancellare la scritta. Valutò anche la possibilità che la porzione di roccia con l’indicazione di decimali e centesimali dell’anno, si fosse staccata e persa durante il crollo della struttura.
L’ipotesi finale di un intervento umano, teso a cancellare l’anno dell’ignominia, ù prifissuri la prese in considerazione durante la sua permanenza nella piana. Aveva trovato aloggio in una struttura il cui proprietario era suo omonimo suo omonimo e lontanissimo parente, quale discendente di un ramo della razza che non subì l’emigrazione. Ebbe modo di assaporare e gustare le antiche ricette della cucina tradizionale ed ebbe notizie, circa le pretese e le rivendicazioni territoriali dei paesi confinanti, sul patrimonio dell’antico borgo ora disabitato. Le richieste e le pressioni provenivano da luoghi che non vogliamo onorare nominandoli e le cui popolazioni, da parte degli abitanti dell’antico paese disastrato, venivano sempre indicati, a spregio, con soprannomi di “Gghèrghj, Cìramilàri, Càrnazzàri, Rìmunnàri, Vuzzuluti e Mùlattièri cchj zarìcchj”. Erano i firmatari di petizioni dirette ai politici perché deliberassero la spartizione del territorio del paese “scomparso”. Le richieste fondavano principalmente su un precedente del 1938, quando al paese “morto” venne sottratta la contrada Maciddhàru, ufficialmente assegnata ad altro centro confinante sulla base della comune identità e della continuità territoriale. Nella realtà la decisione fu uno scippo e più specificamente uno sgarbo con intenti politicamente punitivi verso il paese antico e la sua classe dirigente, della quale poi si è perso ricordo e memoria. In quei borghi “interessati al patrimonio”, si pensava che se era andata bene una volta, a maggior ragione stavolta bisognava insistere perché il bottino era grosso ed i beni in ballo immensi. Il comune “scomparso” era fra quelli col territorio più vasto nella regione.
Chi aveva scolpito quella scritta sapeva come la faccenda sarebbe finita. Conosceva l’ignavia sua e dei suoi compaesani e sapeva che, come gia accaduto per altri eventi, del disastro di cui parliamo nessuno avrebbe lasciato memoria scritta. Sapeva anche che nessuno avrebbe avuto forza e volontà di sollevare contestazioni contro le spoliazioni territoriali. Aveva la certezza che le avrebbero subite senza muovere ciglio, proprio come avvenne nel ’38. Questi probabilmente i motivi per i quali, con quella scritta tratta dai vangeli, aveva deciso di immortalare in eterno la memoria dell’infamia che si stava consumando, fissando nella pietra la data in cui tutto aveva avuto inizio, particolare questo, che purtroppo future ed avverse circostanze avrebbero impedito fosse conservato e tramandato nella sua interezza.
Non una parola ne un cenno “ù prìfissùri” l’ebbe dai “sopravvissuti nella piana”, su storia, vicende, tempi e motivi del degrado dell’antico paese. Non un accenno fu da loro fatto sul destino degli “abitanti montanari”. Sembrava che l’antica e deleteria usanza a non documentare nulla, a non lasciare memoria perpetuasse ancora. Il professore però non aveva tanto bisogno di conoscere cause e motivi di tanto sfacelo, li intuiva. Tra gli scritti del suo avo, aveva trovato appunti dai quali traspariva, fra tanti altri aspetti negativi radicati fra la popolazione “scomparsa”, il comune sentimento di disaffezione verso l’antico paese. Non era pertanto difficile immaginare la causa primaria dello stato di degrado e sfacelo che l’insediamento avrebbe subito in un futuro non lontano.
Fra le tante “cose” custodite nel granaru rammentò che c’era un appunto in cui l’avo annotava ciò che la sua vecchia mamma, in una occasione aveva detto riferendosi a talune situazioni paesane, a quegli accadimenti dei quali si era persa memoria; “fìgghju mìa, òn tìnni fà gàbbu, addhùnni nùi tùttu pò accàdi, gnì còsa pò succèdi”.
Mentre si coricava per la sua ultima notte nel territorio del paese avito, “àru prìfissùri” venne a memoria il detto “Sì ghè stàtu sùlu nù brùttu suònnu l’àma àbbìdi cchjù nnànti, a gàti tièmpi”. Si concentrò per rammentare dove aveva letto o da chi aveva sentito tale assunto. Quando ci fece memoria, increspò le labbra accennando un sorriso e si addormentò.
Luglio 2015
Minucciu
3 commenti
Ciao Minucciu! Sembra quasi fatto apposta, ho appena finito di leggere il capitolo inerente le tue conclusioni di Ninaja e mi trovo a leggere sul “nostro” giornale interattivo questo articolo. Che ti devo dire? Sia in caso che nell’altro è come se tu avessi scritto qualcosa che ho sempre immaginato. Spero con tutto il cuore che non sia vero, che niente si avveri, ma la tendenza ci sta proprio tutta e vedo gli amministratori dei comuni limitrofi già lisciarsi i baffi. Nessuno muoverà un dito per salvare il nostro comune e se giri per il paese ne sono una testimonianza le case che prima o pi crolleranno a iniziare da “palazzo” Monaco che è già in procinto di crollare. Un’altra testimonianza la possono dare gli abitanti delle varie contrade ai quali è più semplice accedere ai comuni limitrofi. Un abbraccio all’autore dell’articolo e a Luigi padre del giornale.
Leggo solo ora il tuo bellissimo racconto e,devo dire che il commento dell’amico Benincasa mi trova perfettamente d’accordo con lui.Un caro saluto a voi.
Grazie a Luigi ho riletto questo racconto già commentato nove anni fà.
Ci sono stato appena sabato scorso per un matrimonio in famiglia celebrato nella chiesa della Santissima
Trinità ancora addobata con il parato per la festa del nostro Santo Patrono. Cosa dire? Ebbene si, per quel poco che ho visto pare che il sogno si stia avverando e sono andato via con una amarezza immensa.
Cari saluti.