Luigi Bisignani
A’ Riprìsintazziùni (ppì quiri dà Terra);Prima parte.
A’ Sànta Pàrti (ppì quìri dè Casàli)
Non era semplice che “nù sàntunatìsi ì vàsciu” potesse frequentare od essere amico “ì gùnu dà Tèrra”. Fra gli abitanti dei due rioni, vi era inimicizia secolare, risalente al periodo antico, durante il quale, alcune famiglie furono costrette “àss’àllarigà ntè pàgghjàri àru chiànu ì Sàntuvardìnu”, i cui terreni vennero immediatamente assoggettati al “casalinaggio”, tassa che gravava sulle aree edificate.
Ce lo raccontava “zù Pascàli”, nativo “dò Sàmmicuòsu” (noi bambini, lui vecchio sull’ottantina), a proposito della sua esperienza alla scuola elementare, dove ebbe come vicino di sedia Francìscu, “nù quatràru dà Tèrra”.
Gli spigoli vennero nel tempo smussati da “Francìscu”, che aveva qualche problema con aritmetica ed italiano, materie nelle quali zù Pascàli riusciva benissimo. L’istinto di solidarietà infantile indusse zù Pascàli a dare aiuto al compagno di classe e fu naturale che il di lui padre chiedesse ai suoi genitori se i due ragazzi potevano stare un pò assieme e fare i compiti, perché Francìscu ne avrebbe tratto beneficio.
Su queste premesse i due ragazzi iniziarono a frequentarsi e zù Pascàli spesso era a casa di Francìscu, “figghju i ggenti bbona”, ossia di famiglia con beni al sole e quindi molto influente.
La naturale curiosità spinse i due ragazzi a girare per tutta la grande casa i Francìscu ed in una delle soffitte furono attratti da una vecchia “cristalliera”. Guardando attraverso i vetri polverosi, i ragazzi notarono quel che sembrava “nù cappòttu à rròta”, colore rosso porpora, steso sul ripiano “ad’àmmuccià rròbba”. Lo sollevarono e scoprirono una lancia ed un elmo che sembravano “romani”, epoca della quale avevano iniziato a studiare la storia. Curiosando avevano procurato del rumore ma, presi come erano dall’eccitazione per la scoperta, non ne avevano avuto sentore. Furono sorpresi da zù Nicòla, nonno paterno di Francìscu, che invece il sentore di gente che gli rovistava in casa l’aveva avuto. Il vecchio non ebbe il tempo di accennare un richiamo perché venne sommerso dalle domande dei due ragazzini.
Zù Nicòla spiegò loro che la cappa, la lancia e l’elmo, non erano originali nè molto antichi, risalivano a circa un secolo. Erano stati fabbricati per un suo bisnonno, il quale, in costume da soldato romano, doveva partecipare “àra riprìsintazziùni”.
Spiegò che era una “prùcissiùni” sulla passione e morte di Nostro Signore, fatta conoscere dai dominatori spagnoli che, nella loro patria, erano usi celebrare il rito della passione e morte di Cristo, con funzioni nelle pubbliche vie percorse in processione accompagnate da canti sacri. Nel tragitto erano previste delle soste, “le stazioni” durante le quali si rievocavano le fasi salienti del martirio.
La funzione piacque e fu accettata quale testimonianza di pentimento e penitenza e venne fatta propria dai regnicoli. Nel nostro paese furono proprio ”quìri dà Tèrra” ad organizzare e celebrare, per la prima volta, questo rito particolare, guidati dal loro parroco, che ne fu ispiratore e guida. Nel resto del paese la cosa si riseppe e si apprese che il rito sarebbe avvenuto al tramonto e per l’occasione erano stati preparati dei canti. L’itinerario (che era segnalato da torce), “pàrtiàdi dà chièsia dà Mòtta pàssànnu dò làtu ì sùsu, jèdi fìnu ari Palìzzi e pùa, à bbìnì, facièdi ù làtu ì vàsciu”. La rievocazione ebbe un forte richiamo e la totale partecipazione popolare. Fu anche, a memoria d’uomo, la prima volta che a “quìri dè Casàli” fu consentito “d’àcchjanà àra Mòtta e pùrtà vàrivàschj”, senza correre alcun rischio (la coltellata era d’uso comune e molto in voga).
I componenti il corteo, gli “attori”, erano tutti “dà Tèrra è ghèra tùtta ggènti ccu ddon nnanti u nomi, ggènti bbona”, ossia gli appartenenti a quella classe di possidenti, unici nel rione che potevano permettersi la spesa per il costume. Aprivano, scortavano e chiudevano il corteo, un gruppo di militi vestiti da soldati romani, armati di picca, schierati a richiesta dell’agente del barone, il quale, temeva che la folla (appartenente a due rioni nemici e divisa fra i partecipi al corteo e gli assiepati lungo il percorso), potesse compromettere l’ordine pubblico. La “scorta” vegliava sui gruppi che rappresentavano gli episodi salienti del “calvario”, le pie donne, la Vergine, il Cristo , Simone di Cirene ed in particolare su Giuda il quale, col cappio di una fune al collo chiudeva il corteo con alle spalle un soldato romano che reggeva un capo della corda.
Il resto della popolazione era schierata lungo il percorso e molti tenevano torce accese. Fosse stato presente “gùnu i fòra paìsi” l’appartenenza al rione l’avrebbe percepita osservando il comportamento della popolazione. Erano partecipi ai canti “quìri dà terra, ppìcchì s’àvìanu nparàti). Guardavano e commentavano, meravigliati e stupiti, “quìri dè Casàli”.
La cerimonia suscitò molta commozione ed unanimemente venne giudicata bellissima. Tanto fu il turbamento nelle coscienze che, si raccontava “ì gùnu dè càpizzùni dà Tèrra, quìru chi sùpa à cùsciènzia abbòja nn’àvìadi e rì mànu ddhj culàvanu sànghu”, il quale fu visto sul portone di casa sua “àddimmannà pirdùnu, prigànnu e chjàngiènnu ngìnucchjùni,”. La cosa colpì molto, anche se qualche malalingua insinuò che in quel gesto, molto palese, di tutta apparenza e di poca sostanza, non fosse estraneo “ù cunsìgghju ì nù parènti ccà càmmisòla”.
La buona riuscita della cerimonia, di contro fu causa di nuovi attriti fra le fazioni in cui il paese era diviso, e tanto per non smentirsi i rioni diedero al rito da subito nomi diversi. Quelli dei Casali presero cappello perché non volevano restare esclusi dal rito “dà Sànta Pàrti”, né intendevano rassegnarsi al ruolo di comparse “ccà vàrivàscha mmànu”, tenuto conto che superavano numericamente “quìri dà Tèrra”. Questi ultimi, giustamente, rivendicavano ideazione e paternità della “Rìprisintazziùni” e non intendevano cedere a “quìri ì vàsciu”, nessuno dei ruoli nella recita.
Non venne trovato un accordo e le autorità religiose non tollerarono “lo scandalo” di un paese, devoto ma diviso dallo spirito di appartenenza e neanche l’incongruenza e la vergogna di un Venerdì santo nel quale si teneva, in doppio, un rito che per sua natura è unico, cio perché, di fronte ai testardi rifiuti, “quìri dò Casàli”, in opposizione a “quìri dà Tèrra”, si erano risolti a tenere una loro cerimonia della via Crucis.
Finì che la processione restò unica. Venne deciso che personaggi e ruoli dovevano essere assegnati col criterio dell’alternanza, in modo che un personaggio non toccasse per due anni consecutivi allo stesso rione. Venne stabilito che Giuda ed il suo custode dovevano appartenere a rioni diversi e qui, senza saperlo, vennero poste le basi dell’episodio che influì e segnò il destino della sacra rappresentazione.
Le fazioni aderirono “obtorto collo” alle nuove regole e la processione ne guadagnò in devozione, bellezza e munificenza. “Ntè famìgghj bbòni ì sàntudunàtu”, si scatenò la gara per il costume storicamente più autentico e sontuoso ed è in questa epoca che il bisnonno di zù Nicòla, da un laboratorio teatrale napoletano, si fece confezionare il costume da soldato romano che i due ragazzi, decenni dopo scopriranno “ntà crìstallièra”.
Zu Nicòla raccontò chela durata dell’apparente concordia paesana, fu pari a quella della sacra rievocazione. Tutto durò appena un lustro, durante il quale, qualche incidente “ccà pùncitùra ò rà pàliàta” si verificò, ma il tutto era legato alla rivalità secolare fra due “ràzze” che mal si sopportavano e che non mancavano l’occasione per farsi dispetti. Capitava così che il soldato romano (dà Tèrra) avesse mano pesante frustando il Cristo (dò Casàli) e viceversa. Accadeva che, durante una delle tre cadute sotto la croce, una pedata maligna colpisse i fianchi del “martire” o che il soldato romano, di scorta al Giuda, esagerasse con gli strattoni alla corda. Succedeva che, dalla folla, “quìri ì pàrti cùntrària sà piàvanu” col sommo traditore, verso il quale veniva “sputàtu à raccatu” e che “sùpa i cuòsti sùa” gli si stampassero “virigùni i sàlici o do grippìli”. Le “vittime” (quella era la regola non scritta), dovevano subire con “cristiana rassegnazione” (lo imponeva l’accettazione del ruolo), ma nulla impediva “cà sù tiniènu àmmènti” e nel tempo “sì càcciàvanu ì bricazziùni”, anche se la parte più difficile era individuare chi, al riparo o confuso fra la folla, approfittava “e rà bricazziùni sà càcciàva ppì pprìmu”.
Subire lo scherno, suscitare “gàbbu” era in preventivo quando si accettava un ruolo nella rappresentazione della via Crucis. “Ghèradi ù prièzzu à pagà àra dìvuzziùni”, cose da nulla e nell’ordinario dei rapporti fra due comunità, fra le quali, sappiamo, non c’era nessuna simpatia. Andò così fino a quell’anno in cui, sorte maligna fece si che, il personaggio di Giuda, toccasse in sorte a zu Pippinu (do Casàli), mentre il ruolo del soldato romano che lo avrebbe scortato, toccò “a don Franciscu, ù tàtarànnu ì zu Nicola” (dà Tèrra). Era la peggiore fra le accoppiate possibili, aggravata da una situazione particolare. Si dava il caso che zù Pippìnu, aveva patito la galera per aver colpito beni ed affetti nella famiglia i don Francìscu, il quale, sicuramente, non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione, così come il resto della parentela, la quale, sul percorso della processione, per i suoi scopi, già aveva scelto i luoghi più adatti dove appostarsi ed attendere il passaggio.
Le coppie “sì pùtiànu spattà” solo se uno degli interessati lo richiedeva, rinunciando così al ruolo. Nessuno, tra “zù Pippìnu-Giuda” e “rù surdàtu-don Franciscu”, intendevano dare così tanta soddisfazione, all’avversario (in generale) ed ai sandonatesi (in particolare), per cui, le cose restarono così come la sorte aveva deciso.
Giuda ed il “soldato” erano entrambi “ì bòna stàzza e tuòsti” e le scintille iniziarono appena il corteo si mosse. Pare che don Francìscu esagerasse volutamente con i previsti strattoni alla corda, sacrificando oltre il dovuto “ù cuòddhu ì zù Pippìnu”, il quale, doveva forzatamente subire e pare anche che, sovente, mormorasse “Francì, mi stàsi faciènnu ghèssi i zìguòli, vìdi da tirà e dà stringi ì mìnu ssà fùni, mì stàsi sàcrificànnu, finiscila, òn tirà cchù ddo nnìcissàriu ò quànt’ebbèra à Madònna tì mìntu ì stintìni àru cuòddhu e tì càcciu à nnànti”. “D’àmminàzzu dòn Francìscu òn sinn’è ddàtu ntèsa”, ma il caso volle che passando “ntè vanèddhj arriètu à chièsia”, uno degli appostati diede un brutto colpo a Giuda, il quale perse l’equilibrio e per poco non rimase impiccato nel cappio della fune, che don Francìscu in quel momento teneva molto tesa. Il “soldato” d’istinto mollò la corda e si chinò per verificare l’accaduto. Semisoffocato e vistosi perso, zù Pippìnu mise mano al coltello e colpi alla cieca. Don Francìscu, che era il più vicino, ebbe una estesa e brutta ferita al collo e ci resto secco.
L’episodio rinvigorì la fama di gente “rustica e trista” che si accaniva (e non sempre a torto) contro i sandonatesi e questo già da prima che don Francesco Capecelatro lo “certificasse” ufficialmente nel suo diario su fatti accaduti circa un secolo avanti quelli di cui stiamo narrando. Segnò anche la fine della sacra rappresentazione in luogo pubblico, sia per decisione dell’autorità civile per motivi di ordine pubblico che era stato turbato dai disordini seguiti all’accoltellamento, sia per provvedimento dell’autorità religiosa, che ritenne il rito profanato dal sangue versato e quindi privato dei necessari requisiti di sacralità.
La via crucis nel nostro paese ritornò ad essere celebrata la dove il rito era nato, nel chiuso delle chiese, dove continua ad essere celebrata anche nei tempi nostri. Come manifestazione sulle vie pubbliche, ci venne concessa la processione del Venerdì santo, senza figuranti, coi soli simulacri del Cristo morto e dell’Addolorata, da portare in processione il cui inizio venne fissato a prima dell’alba, per evitare la presenza di avvinazzati od ubriachi (nella breve vita della cerimonia settecentesca era frequente la loro presenza lungo le strade). I canti religiosi dell’epoca non ci sono stati tramandati ma ritengo che musicalmente non dovevano discostarsi dal “gregoriano”, il canto classico delle celebrazioni liturgiche e dei riti religiosi di quell’epoca.
I canti a noi pervenuti non sono quelli antichi. Sono stati composti e musicati, probabilmente a metà ottocento e sono di estrazione varia perché, quasi tutti, nella metrica e nella rima, recano l’impronta “popolare”. Uno solo è di estrazione “classica”, il “Tementi dell’ira ventura”, il quale è uno degli inni sacri composti dal Manzoni, presumibilmente musicato da qualche bell’anima paesana e proposto quale canto di introduzione alla funzione della via Crucis.
Minucciu
Maggio 2015
3 commenti
Sei inesauribile!!! Complimenti.
Leggerti e’ piu’ che un piacere,e’ un vero godimento.Non sono avvezzo allé lusinghe,credimi,ma le piu’ belle pagine su S.Donato,le hai certamente scritte Tu.Grazie Minu’!
Volevo dire che non sono un’adulatore,ma quello che scrivi,mi cattura.Hai un tuo stile,sei ironico e spesso mi ritrovo a ridere.Ciao!