La Redazione & Minucciu
Ccià ffàttu amùri….
In quella freddissima notte di gennaio, il vento trasportava il suono di una chitarra battente “nù catarrinu” e di un organetto che di concerto “jènu tirantèddha”. La musica si udiva a tratti, secondo il capriccio “dà sirintìna”, il vento che trasportava il sonoro modificandone l’intensità, ma così permetteva che il segnale si spargesse per tutto il paese. Nel silenzio che avvolgeva l’abitato immerso nella profonda oscurità della notte (la pubblica illuminazione era di la da venire) le note penetrarono in tutte le case scotendo dal torpore del sonno parecchia gente. Inizialmente irritati dal disturbo e poi stupiti dalla maestria dei suonatori, quasi tutti pensarono che “à sirinàta” sicuramente era opera di qualcuna di quelle due-tre persone che in paese erano “patrùni e màstri” dei due strumenti.
Avvicinatosi la dove era necessario andare, il suono si fece più lento ed il ritmo calò fino a produrre un suono “a lamièntu” al quale si sovrappose una voce tenorile che attaccò “à dispinsàta” alla sandonatese cantando: “Zùccaru pò mangià…. ma nò cciràsi….. ciàsi fàttu àmùri e nùnn’è stata còsa…..nùnn’è stata còsaaaa…”.Dopo il verso, la suonata riprese “à tiranteddha” allontanandosi dal vicinato fino a divenire sempre più flebile e lontana e poi cessare del tutto.
La “càntàta” semplice in unica strofa era utilizzata generalmente per inviare saluti o messaggi. Col richiamo dell’ultima strofa, come in questo caso, assumeva significato di sfida o di dileggio o di sfottò, circostanza che, salvo ognuno, meritava una sola risposta d’obbligo: la coltellata.
Chi aveva sentito, ed in questo caso il vento aveva favorito tutto il paese, individuò sia il cantante (di quella voce fra i paesani erano capaci solo due persone ed una era in galera) che i suonatori e di conseguenza anche la “càsa” destinataria delle strofe, la cui famiglia, aveva capito benissimo significato, ed individuato sia il mandante, sia gli autori materiali dello sgarbo.
Il retroscena ha come riferimento un fidanzamento di qualche tempo prima, “chiàcchiariàtu” per via del “rango” e della “eccessiva libertà”, che per quei tempi i genitori avevano concesso alla “zìta”, lasciata libera di recarsi “ntè mènsanìli” assieme al promesso sposo, che so a prelevare olio o vino. Non era successo nulla, i quei pochi istanti i due giovani non erano andati al di la di qualche innocente bacio sulle gote ma la circostanza che erano potuti rimanere qualche attimo da soli aveva compromesso l’immagine della ragazza la quale, “ònsiammài spàttavadi” veniva relegata a “rròbba ì sicùnna mànu” e condannata a restare zitella od a fare un matrimonio di comodo.
Tutto filò liscio fino alla riunione per stabilire l’ammontare della dote. Vennero stabiliti quantità e confini ”dà rròbba” e la discussione intoppò quando venne affrontata la questione “dè tèrri àru chiànu”. La geometria dell’appezzamento in discussione, piantumato a frutteto, non facilitava la divisione ed il padre della sposa ci mise del suo a complicare le cose, incaponendosi nel volere far rientrare per forza nella dote un angolo di terreno sul quale esisteva un ciliegio. La discussione non verteva sulla pianta che dava una meraviglia di frutti ma sulla disarmonia che lo stacco di quell’angolo avrebbe arrecato alla restante porzione che, a ragione, il padre dello sposo riteneva pregiudizievole perché avrebbe rovinato l’insieme della restante porzione di terreno che era stato destinato a dote della figlia femmina.
“Stuòrti tùtti dùi”, nessuno dei futuri suoceri volle cedere “e rà còsa gà piàtu acìtu” fino alla decisione di troncare ogni rapporto.
“U zìtu”, al quale i compaesani non mancarono di rimarcare direttamente o per allusioni “ cà vàlisi mìnu ì nà chiànta ì ciràsi”, digerito l’imbarazzo dopo qualche tempo convolò a nozze “ccù nnà furastèra” presso la cui città si stabilì.
La famiglia della ragazza, impicciata e consapevole dell’errore commesso, rimediò accettando la richiesta di matrimonio da parte di un maturo “putigàru ì fòrapaìsi”. Un anno dopo la cerimonia nuziale la ragazza tornò in paese per le feste di natale in visita ai genitori e si trattenne anche “pà fèra do sìa i jìnnàru”. Qualcuno pensò bene di non far passare sotto silenzio la faccenda e “ccù nnà damiggiàna i vìnu e nù stuozzu i vucculàru”, commissionò la serenata con la quale questo racconto si apre.
Lo sgarbo lasciò il segno nella famiglia della ragazza. Il tempo però è galantuomo ed un paio d’anni dopo la serenata notturna, “u zìtu” ricomparve in paese stabilendosi presso i genitori e da solo. Subito corse voce che il matrimonio non era tanto solido e che “a furastèra” trascurava marito e casa coniugale perché assalita da una grave forma di depressione che la faceva “sragionare” In realtà, dopo mesi in cui i segnali e le avvisaglie del disagio non erano state ben comprese, ritornato a casa prima del previsto, “ù zìtu” aveva finalmente realizzato che non si trattava di malattia bensì aveva sposato una zoccola.
Una notte del gennaio successivo, il vento, “à sìrintìna” che in paese è messaggero, portò “àra càsa dò zìtu”, così come in tutte le altre del paese, il suono di una cornamusa, “à cìramèddha” che andava a “tirantèddha”. Il suono si affievolì fino a diventare un lamento che fece da accompagnamento ad una voce argentina col timbro da soprano squisitamente femminile, la quale cantò: “U zùccaru mìa… ghè dìvintàtu mèli…nfèci ì ciràsi tùa gànu piàtu fèli…. ghànu piàtu felììì…
La cornamusa riprese ad andare “à tìranthèdda” ed il suono via via affievolì fino a cessare del tutto. Non fu difficile individuare nella famiglia della “zìta” la commissionaria della pepata risposta allo sgarbo di qualche anno prima. Quel che rimase mistero fù l’identità della cantante, perché era certo che di una donna.si trattava ma, fra le paesane, non c’era nessuna che avesse una voce tanto potente e bella.
Giugno 2014
Minùcciu
2 commenti
Grazie Minù, l’ho letto d’ un fiato. A te un caro saluto.
Bravo!Ho vissuto il tuo splendido racconto come fatto accaduto,grazie ,per poco tempo mi hai fatto ritornare al nostro caro paese .