Luigi Bisignani & Pasquale Loiacono
La tradizione del maiale in Calabria
Dalla macellazione alle pietanze
Per secoli il maiale è stato al centro dell’alimentazione in Calabria con l’allevamento dell’animale la sua macellazione e la preparazione degli alimenti che poi, in una sorta di vera e propria festa, vengono consumati dall’intera famiglia
Un momento della preparazione del maiale
IL maiale è stato per secoli la dispensa dei calabresi e non solo: la sua macellazione, rigorosamente fatta in casa sino ad una ventina di anni fa, era un rito antico al quale partecipava tutta la famiglia. Una festa, forse cruenta, che ha segnato e scandito la vita di un’intera regione. Quasi tutti avevano il porcile, il “zimmunu” (dal tedesco “zimmer”, stanza) ove ricoveravano ed allevavano il maiale con gli avanzi di cibo pasturati con la “caniglia”, la crusca. I “zimmuni”, vere e proprie porcilaie, erano concentrati per lo più in grotte scavate nel tufo e comunque fuori dal centro abitato: una volta al giorno, generalmente nel primo pomeriggio, era una processione interminabile di donne con in testa l’ondeggiante secchio della “vrurata” da svuotare nella “scifella” (una sorta di contenitore ad angolo fra due lati del “zimmunu” e rialzato per non far traboccare la brodaglia) ove si avventava, voracissimo, il porco, con gran soddisfazione del proprietario che lo vedeva ingrassare giorno dopo giorno e già pregustava salsicce, soppressate, prosciutti e tutto il ben di Dio che dall’animale si ricava.
Quando il maiale superava il quintale, generalmente fra dicembre e febbraio, ci si preparava all’uccisione della bestia, anche perché il freddo dell’inverno era l’ideale per la conservazione della carne e la stagionatura dei salumi. Prima della data stabilita si cominciava ad “ammolare” i coltelli e a preparare la “mailla” (madia). La mattina dell’uccisione le donne si svegliavano che era ancora buio per preparare un enorme pentolone di acqua bollente che sarebbe servita successivamente per radere le setole del porco. Alle prime luci dell’alba, gli uomini prelevavano il maiale preceduto da qualcuno con un secchio di ghiande rumoreggianti allo scopo di farsi seguire docilmente dal maiale, affamato ma riottoso (a bella posta non gli si dava da mangiare nelle ore precedenti l’uccisione per favorire lo svuotamento delle budella), il quale probabilmente intuiva la sorte che gli sarebbe toccata da lì a poco.
L’uomo che avrebbe poi scannato la bestia preparava un nodo scorsoio con una corda, quindi si avvicinava all’animale e, con molta abilità, ne agganciava l’incisivo facendo due o tre giri attorno al muso per impedirgli di mordere. Altri afferravano il suino, tenendolo saldamente e scaraventandolo su una grossa panca. I più pavidi, invece, avevano il compito di stringere la coda: operazione inutile, tanto che ancora oggi, se si affida a qualcuno una mansione simbolica, senza alcuna responsabilità, si dice che “tiene la coda al porcello”. Il carnefice, munito di un coltellaccio lungo ed affilato (“u scannaturu”), tranciava di netto la giugulare del porco che si dimenava lanciando grugniti altissimi e spaventosi rimbombanti in tutto il paese. Fra i bambini eccitati c’era anche chi, più sensibile, si nascondeva, tappandosi le orecchie per non udire quegli strepiti disperati. Il sangue, che zampillava copioso dalla gola del porco, colando in una pentola era rigirato continuamente con un mestolo di legno per evitare che coagulasse. Esso, infatti, sarebbe stato poi l’ingrediente principale del sanguinaccio, una dolcissima crema da spalmare sul pane, di cui i bimbi di un tempo erano ghiottissimi. Dopo una lenta agonia il povero animale esalava l’ultimo respiro ed allora ci si preparava a raschiare la cotenna.
Quando anche questa operazione era terminata, il “macellaio” incideva la pelle delle zampe posteriori facendone fuoriuscire i tendini nei quali veniva infilato un attrezzo di legno a forma di triangolo senza base sicché, con l’aiuto di una carrucola, o più semplicemente a forza di braccia, l’animale, per essere squartato, veniva issato ed appeso ad un gancio che spuntava dal soffitto. A questo punto aveva inizio un’operazione complessa e delicata nella quale emergeva tutta la perizia del “macellaio”. Per prima cosa estraeva l’apparato genitale dell’animale, che veniva usato poi dai falegnami per ungere le seghe, quindi tagliava la testa. Poi passava, delicatamente, ad aprire il ventre dal quale cavava la vescica, subito affidata ad uno degli aiutanti perché, dopo averla svuotata, la lavasse accuratamente e, con l’aiuto di una cannuccia, la gonfiasse. La vescica, nei giorni successivi, era riempita con lo strutto ancora caldo e liquido che, dopo qualche giorno, solidificava. Dunque, con molta attenzione, onde evitare di forare le budella, toglieva tutto l’apparato digerente, il colon e l’ intestino tenue.
Tutto finiva in una bacinella e per le donne cominciava un lavoro lungo, fastidioso e delicato per lavare decine e decine di metri di intestini che, rivoltati, erano collocati in una grande pentola piena di acqua fredda assieme a limoni ed arance. Era la volta di polmoni, fegato e cuore e la carcassa, svuotata completamente delle interiora e tagliata in due parti, le “menzine”, nel senso della lunghezza, veniva sganciata. Ora, finalmente, gli uomini potevano riposare, mentre per le donne aveva inizio un vero e proprio tour de force. Per prima cosa affettavano un pezzo di fegato e lo avvolgevano nel peritoneo (“picchjiu”) che, con qualche pezzo di carne tagliato dal collo della bestia, finiva sulla griglia per servire da colazione agli uomini che avevano lavorato così duramente e che ora non disdegnavano un po’ di arrosto ed un paio di bicchieri di vino. Poi si preparava un sontuoso pasto a base di maccheroni al sugo, ovviamente di maiale. Dopo la frolla della carne, il giorno successivo si provvedeva al sezionamento, operazione affatto semplice che richiedeva perizia ed esperienza, ed allo sminuzzamento delle parti. Nella prima metà del secolo, almeno dalle nostre parti, non erano ancora diffuse le macchinette trita carne per cui la polpa di salsicce e soppressate era tagliuzzata a mano fino a ridurla a dadini. Si trattava, ovviamente, di un lavoro massacrante che impegnava le donne per un paio di giorni. Una volta preparata la pasta col sale e le spezie, iniziava la lunga e fastidiosa operazione dell’insaccaggio.
Il maiale era il re della tavola nei tempi antichi. L’allevamento del maiale era di vitale importanza nell’economia e nella cultura contadina.
Si diceva, infatti: ‘N’uortu e ‘nu puorcu risuscitanu ‘nu muortu. Per i nostri antenati l’orto ed il maiale erano capaci di resuscitare i morti.
A seconda delle possibilità economiche, quasi tutte le famiglie ammazzavano il maiale, per assicurarsi la provvista di carne (‘u còmmitu) per tutto l’anno.
La macellazione del maiale era un rito, un’occasione di festa per la famiglia ed anche per i parenti e i compari o i vicini di casa che venivano invitati per aiutare nella preparazione dei salumi.
L’operazione di macellazione e lavorazione delle carni del maiale durava due o tre giorni.
Il primo giorno, dopo l’uccisione dell’animale si procedeva con grossi coltelli alla raschiatura delle setole, ammorbidite con acqua bollente; dopodichè si praticavano dei tagli sulle zampe posteriori per infilare tra i tendini un attrezzo di legno a forma trapezoidale (mangùnu o gambiàllu) che permetteva di appendere l’animale e squartarlo; quindi, le due mezzene venivano pulite, strofinandole con sale e arance spaccate; intanto le donne, dopo aver ripulito gli intestini che si utilizzavano per gli insaccati, preparavano il pranzo al quale partecipavano tutti coloro che avevano partecipato al rito.
Il giorno successivo si passava alla sezionatura delle parti che venivano disossate, tagliate e utilizzate in maniera diversa.
Del maiale non si buttava proprio niente. Si conservava il grasso, i cicoli, il lardo, la pancetta, le cotenne, le salsicce, le sopressate, i capicolli, il prosciutto; e le ossa spolpate venivano conservate in salamoia (carne ‘ncataràta), poi cucinate con le verdure durante l’inverno.
Si preparava anche la gelatina, ‘i scarafògli, con le zampe, le orecchie, e parti della testa, bollite e conservate in aceto aromatizzato con foglie d’alloro. Anche la trippa veniva salata e, ricoperta di polvere di peperoncino rosso piccante, messa ad affumicare; e, poi, col sangue, cotto a bagnomaria insieme a cioccolato, zucchero, noci, pinoli e bucce d’arancia grattugiate, si preparava il “sanguinaccio”.
I salami venivano conservati ed erano poi consumati in occasione di feste.
La salsiccia veniva preparata tagliando manualmente a pezzetti medio-piccoli parti di polpa della spalla e del fianco del maiale, rifilature del prosciutto, che, amalgamate con pezzetti di lardo, insieme a sale, pepe nero e pepe rosso piccante o dolce, erano poi insaccate attraverso piccoli imbuti nelle budelle strette e lunghe. In alcune zone si usava insaporire l’impasto anche con semi di finocchio.
Le salsicce, così, legate a segmenti di circa 15 centimetri e punzecchiate con aghi grossi o sottili ferri da calza, per far sgocciolare i liquidi, venivano poi appese con canne alle travi della cucina, per la stagionatura, e trattate nei primi giorni con una leggera affumicatura di legna bruciata.
– Amaru chi lu puorcu nun s’ammazza, a li travi sui nun mpica sazizza – Era, dunque, misera quella casa che non aveva salami appesi alle travi.
In ambienti ventilati per più di un mese, le salsicce si “curavano” per essere, poi, conservate nell’olio o nello strutto.
La sopressata era ottenuta tagliuzzando a mano parti scelte dal prosciutto, dal filetto, dalla spalla e dal lardo suino, impastate con pepe nero in grani, pochissimo pepe rosso e sale; la cui quantità variava nei diversi paesi, a seconda del clima, del gusto e delle abitudini alimentari.
L’impasto, ben amalgamato nella madia, veniva poi “pressato” nelle larghe e corte budelle (quelle dell’intestino crasso), punzecchiate, perchè fuoriuscisse l’aria accumulatasi durante l’insaccatura, e legate al centro con lo spago. La stagionatura delle sopressate durava circa un mese e mezzo e prevedeva la pressatura sotto peso, perchè non restassero spazi vuoti all’interno che avrebbero potuto alterare la qualità ed il sapore del ricercato salume.
Il metodo più usato per conservarle era quello di riporle in vasi di terracotta o vetro ricoperte di olio d’oliva o strutto. Ma c’era un altro antico metodo di conservazione, poi caduto in disuso: riporre le sopressate in casse sotto la cenere di legna.
Il capocollo era preparato utilizzando pezzi interi di lombata disossata del maiale o parti di polpa del collo, venata di grasso, quindi più morbida.
I pezzi venivano salati e messi a riposare per una settimana; quindi si lavavano con vino o aceto e, cosparsi di pepe nero, venivano avvolti nei “veli” dei diaframmi e, legati stretti con spago, appesi a stagionare per più di tre mesi.
La pancetta era ottenuta tagliando a pezzi rettangolari la parte grassa del ventre del suino, insieme alla cotenna, e messi sotto sale per circa otto giorni; passato tale periodo, venivano lavati con vino e aceto, cosparsi di pepe rosso e messi ad asciugare per più di un mese in luogo fresco e ventilato.
A volte i pezzi di ventresca dello spessore di circa tre centimetri venivano arrotolati e poi legati stretti con spago.
I cìcoli o frìttuli erano ottenuti dalla lenta cottura nel calderone di rame, stagnato all’interno, in poca acqua e sale, del lardo avanzato, con le cotenne, private delle setole e tagliato a pezzetti.
Dopo circa un’ora di cottura, i cicoli, venivano tolti dal fuoco, scolati dal grasso sciolto e messi a raffreddare, per essere, poi, conservati in vasi di terracotta, ricoperti di strutto.
La nnuglia, detta anche finnìcula, agliata o stròscia (donna misera), perchè veniva prodotta con parti grasse suine di terza scelta, impastate con pezzetti di polmone, lingua, stomaco (precedentemente bollito), cuore, cotenne con sale, aglio e molto peperoncino piccante, era l’equivalente, nell’area settentrionale della Calabria, della famosa ‘nduja, prodotto tipico della zona del Monte Poro nel vibonese.
L’impasto fine e morbido, ripassato più volte e ben amalgamato, veniva insaccato nell’intestino “cieco”. Questo particolare salume era consumato spalmato sul pane.
Oggi, queste prelibatezze, simbolo del patrimonio alimentare della Calabria, sono prodotte con metodi di antica tradizione contadina e apprezzate in tutto il mondo.
6 commenti
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Ottimo resoconto di una usanza che si perde nella notte dei tempi.Il maiale è stato per anni un animale domestico che ha salvato dalla fame intere famiglie.Ma ancora oggi in Calabria è allevato a questo scopo specie nell’entroterra.
Le antiche usanze oggi quasi sconosciute ai giovani e dimenticate da tanti. Ho apprezzato molto questo resoconto della vita contadina di una volta.Complimenti e grazie!
Grazie, ho fatto un giro veloce attraverso il tempo per arrivare all’anno del Signore 1974, l’ultima volta che nella mia casa paterna di Arcomano è stato ucciso un maiale. Una vera festa come era uso fare.
Ciao Giovanni grazie della tua testmonianza, come pure a Marta del sud America ed Anna…non mi aspettavo tante reazioni anche in privato….
buona lettura e grazie di restare fedeli a questo umile giornaletto
Luigi
ciao luigi,erano altri tenpi ,chi poteva se lo allevava,gli altri aspettavano il 6 gennaio (A FERA DO SIA I JINNARU )per andare a conperare (u puorcu.).ma la cosa che non riesco a dinticare ,sono gli odori e i profumi pi i vanetri,i maiali appese da un mura all’altro odore del’acqua bollente vapori e il pelo e i liquami che scorrevano giu pi’ i vanetri’poi passava ziu saminu pi accata i puli , l’dore do sufritto da scannaturi,a qunquetta aru sucu ,u ficatu con l’aglio velata alla griglia ,a cavudara de frituli e poi la selezioni delle carni,la carnetta per la salciccia e sopressate e guai mai che ci capitasse un muscolo le carne di scarto andava nto pizzenti,i prosciutti antavano rifilati e salati ,a spattra,a pancetta ,a cioriva,i vrituli e con gli scarti la cosa piu buona a jilatina .poi chi i lonchicetri si appendeva tutto a staggionare, tutte le sere si girava la salciccia si mettevano sotto peso le sopresate (I DIAMANTI DI SAN DONATO)si bucavano qu l’achicetra si salavano i prosciutti si stricevano i capicolli,e con il grasso si mettevano sotto vuoto il tutto quanto era arrivato a stagionatura ,quanta fatica e amore ci mettevano le nostre mamme e la sera davanti al camino a guardadare tutto quel ben di (DIO) quanto arrivavano delle visite si spicavadi nu capu i savuzizza e si arrustiadi aru fuocu che bei tenpi….erano quelli ciao luigi san donato nel cuore…….
Ciao Luigi, questo umile giornaletto, come lo definisci, può diventare un patrimonio Sandonatese considerato il fatto che apparentemente i residenti non paiono far molto per rendere visibile a tutti il nostro paese. Sì, il nostro paese anche se io non ci vivo più da mezzo secolo.