Luigi Bisignani
U’ pàni.
Pane deriva dal termine latino “panem”, stessa radice etimologica di “pascere”, nutrirsi (1) In sandonatese, il termine, fino a mezzo secolo fa, aveva significato di nutrimento ma anche di fatica, operosità, occupazione, rendita. Si pensi all’aratura (ccù parìcchju) del terreno dove seminare il grano, alla cura del seminato (zàppuliatùra) per liberarlo dalle erbe infestanti, alla mietitura, fatta a mano, alla battitura (pisatùra) delle spighe ed alla pulitura (vìntulià e spulà) dei chicchi dalle impurità delle pule. Pane significava anche attività lavorativa, posto di lavoro, impiego, esercizio di qualsiasi attività retribuita, acquisizione di provviste ed alimenti per sfamare la famiglia.
Aveva, e penso abbia ancora, significato di lavoro usurante, “ppì panittièri”, gli artigiani che lavoravano per assicurare la disponibilità del prodotto alimentare più consumato, in varie tipologie e forme ed alla base dell’alimentazione delle popolazioni mediterranee”.
“U’ pàni”, fino ad oltre mezzo secolo fa era pensiero fisso per padri e madri delle famiglie la cui attività prevalente era per gli uomini la manovalanza, il bracciantato e per le donne “u sìrivìzzu”, inteso come prestazioneoccasionale per impieghi in mansioni ed attività faticose, i lavori più “bassi” (pulire, lavare, raccogliere e trasportare legna, castagne, olive e derrate varie). Le giornate lavorative erano caratterizzate da scarsa retribuzione, dalla lunga durata (dall’alba al tramonto), dalla estrema precarietà, (la chiamata al lavoro poteva arrivare anche la sera precedente). L’attività lavorativa era regolata ed erogata da nobili, possidenti, latifondisti e da grandi proprietari terrieri o dai loro amministratori, fattori o “màssari”. Era improntata al massimo sfruttamento e caratterizzata dalla discriminazione, per via di appartenenze a partiti e fazioni, originate dalle inimicizie tra le famiglie più potenti, in perenne lotta fra loro, che “à jurnàta ì fatiga”, il posto di lavoro, lo riservavano ai simpatizzanti della loro causa o partito. Orari e retribuzione non era oggetto di libera contrattazione. Vigeva il règime del “pìa o làssa”, esisteva la sola offerta economica dei padroni, quasi un’elemosina, una imposizione dei proprietari che approfittavano delle particolari limitazioni nel mercato del lavoro, causate e prodotte dall’eccesso di manodopera e da condizioni di fame e miseria che inducevano ad accettare condizioni durissime e retribuzioni umilianti e misere (talvolta anche un pugno di fichi secchi) in nome del detto “ancùna còsa nnà mangiàmu, pìcchi ghè miègghju cà nènti”.
Tornando al significato alimentare del termine, la tipologia del pane era il discrimine fra le classi sociali. Essere ricchi e possidenti aveva significato di disponibilità economiche e di conseguenza il poter consumare “pàni jàncu”, confezionato con farine di grani a pasta chiara, quindi pregiati. Appartenere al ceto artigiano od essere un piccolo proprietario comportava il consumo di tipologie di pane ottenuto mescolando farina bianca con più abbondanti dosi di farine di cereale meno pregiato, ad esempio “jìrmànu”,”fàrru”, “màrzuòlu” e talvolta anche ”gùoriu”. A “sèrivi” e “furìsi”, ai quali, nel consumo di derrate alimentari, erano assimilati braccianti e manovali, veniva confezionato “ù pàni mìschìgghju” ottenuto impiegando farine scure, ottenute da grani ed altri cereali (alcuni utilizzati anche come biade) e le cui farine non venivano setacciate oppure lo si faceva molto grossolanamente allo scopo di risparmiare sulle quantità. Per i poveri il pane era un lusso. Quando potevano permetterselo, per loro ne veniva confezionata una particolare tipologia. Era uso impiegare minime dosi di farine di poco pregio alle quali veniva aggiunta molta farina di granturco con cui ricavare “panèddhe”. Altro tipo di pane “povero” si otteneva mischiando a poca farina scura, quella ricavata da ghiande secche macinate. Ne risultava un pane scuro, duro e dal sapore dolciastro. Anche la farina di castagne veniva usata per confezionare pane per le classi meno abbienti, con dosaggi. identici alla farina di ghiande. Le patate, già pane dei poveri per eccellenza, cotte e schiacciate, venivano impastate con farina e se ne otteneva un pane soffice da consumare alla svelta (entro due giorni al massimo) perché di breve conservazione.
“Fa ù pàni”, per le donne significava una fase di lavoro distribuito sulle ventiquattrore. Il lievito era ”in comune”, nel senso che la pasta acida era di vicinato perché passava da una donna di casa all’altra, secondo la necessità di panificare, attività questa che, a fino a oltre mezzo secolo fa, in ogni famiglia avveniva ogni dieci/quindici giorni. “A scutèddha o rà gràsta dò criscènti” (rigorosamente di terracotta e contenente un pugno di lievito), passava di mano in mano e tutte le massaie ne avevano una cura estrema, perché la minima trascuratezza poteva “spattà nà fàtta ì pàni”con danno grave per la famiglia colpita. Quando succedeva (raramente, ma poteva succedere), il fatto comportava la giusta e perpetua esclusione “da lànghjrùsa” dal giro del lievito. La preparazione iniziava tre giorni prima con la stemperatura del panetto di lievito in acqua tiepida da usare per il successivo impasto con una quantità di farina tale da quadruplicare il volume originario. Nei giorni successivi si procedeva per aggiunte e lievitazioni consecutive, fino a pervenire ad un volume “ì criscènti” pari a circa un ottavo del quantitativo da panificare.
La “preparazione” era iniziata col portare il grano da macinare “àru mùlìnu ad’àcqua” (non era costume tenere in casa quantitativi di farina superiori ai due chili) e la scelta era fra “quiru do Fuòssu, i zìu Saràca ”o quìru ì Jìruòscu, all’Acquascùsa”; “ù mùlìnu “àngièri” era lontano e già in disuso da anni.
Con lievito e farina pronti, a quei tempi, le opportunità erano due. Se si aveva il forno in casa (generalmente era presente nelle case dei possidenti) non sorgevano problemi; in caso contrario bisognava aver “impegnato” il forno, presso abitazioni di famiglie disponibili (perché amiche o perché della attività di panificazione ne avevano fatto anche una fonte di relativo introito). Difatti, alla famiglia presso la quale si utilizzava il forno, era uso che, al termine della panificazione, si lasciava una o due forme di pane (dipendeva dalle pezzature) e “nà pìtta o nà rìganàta o nà pìtta ccù pùmadòru”.
Da mattina presto, nella “maiddha” si mescolava farina e pasta lievitata e si lavorava, con acqua tiepida, per amalgamare e rendere omogeneo l’impasto. Un lavoro faticoso, espletato generalmente da una coppia di donne, con la fronte rigorosamente fasciata per evitare gocciolamenti di sudore. L’impasto veniva benedetto e segnato con tagli a croce “fàtti ccà rasùla” e lasciato coperto ed al caldo per il tempo necessario alla lievitazione, tempo variabile in funzione delle temperature stagionali.
La “maìddha” per impastare e la pala per il forno, si trovavano sul posto; “rasùla”, “pànni”per coprire e “lìnna” per riscaldare il forno, erano a carico dell’utilizzatore.
Terminata la lievitazione si accendeva il forno e si procedeva alla “s’chànatùra” dell’impasto. Si pezzavano le forme del pane (da uno a fino a tre kgr.), delle pìtte, dei “cùddhurièddhi”. Si formavano anche “pìtti cchì cìgulàggghj, “pitti ccù pumadòru”, “riganàti”.Tutte dette tipologie di pane venivano coperte con panni adatti e lasciate rilievitare prima dell’infornatura. In occasioni particolari si preparavano anche, “nchiùsi cchì vilèti”, “nchiusi ccù jùnci e cicoria”, tutte verdure, con poteri depurativi, raccolte dagli inizi di Febbraio e fino a Pasqua, “scàvudàti e pàssàti ccù guògghju, gàgghju, pipàzzu sinìsu o càncarièddhi”. “A nchjùsa”, a piacere e fantasia della massaia, poteva avere forma rotonda, tipo le torte salate, oppure a “cùddhurièddhu” perché la spianata dell’impasto veniva arrotolata sul riempimento e poi chiusa a cerchio. Si poteva anche formarla usando una striscia di impasto larga tre dita al centro della quale veniva posto il ripieno di verdure già cotto e condito I lembi della striscia venivano chiusi a tratti, in modo da lasciar intravedere il contenuto e poi, partendo da uno dei capi, arrotolata a spirale ed infornata.
Il pane, che richiedeva una cottura più lunga ed a forno chiuso, veniva infornato per ultimo, e restava nel forno per ore. Confezionarlo era faticoso ma era anche una festa perché un pezzo di pitta calda ed un sorso di vino, non si negava a chiunque transitasse davanti casa durante “à càcciàta dò fuòrnu”. Erano altri tempi, più poveri e faticosi del presente, ma credo da taluni di noi rimpianti, almeno per la genuinità e bontà dei prodotti.
Febbraio 2013
Minucciu
(1) da “Parole alla sandonatese”-Papyrus-mini edizioni-Pistoia 2012
1 commento
Ricordo perfettamente tutta la procedura che Minucciu ha messo per iscritto con dovizia di particolari anche perchè la mia famiglia viveva di agricoltura. I miei avevano anche u paricchiu che era fonte di ricchezza e ricordo anche la morte dei due docilissimi buoi che lo componeva. In particolare ricordo la morte dell’ultimo bue: era già ammalato, tanto che pareva non reggersi in piedi, ma aveva bisogno di camminare e mio padre le mise una fune sulle sue possenti corna mastodontiche come mastodintico era il suo corpo. Papà mi consegnò la fune e io appena cinquenne, un fisico che sembrava un fuscello al cospetto del bue, mi avviai pù u purtà a spassià e mi segui docilmente, ma fatto qualche centinaio di metri si fermò e mi avvicinai per accarezzarlo si incinocchiò si distese e li rimase. Accorsero alle mie grida tutti i familiari e lessi nei loro occhi la gende disperazione.Mi fermo quì.