Luigi Bisignani
La redazione & Gisella Tiesi
Mio padre raccontando le proprie storie ripete sempre la seguente frase:
“Il lavoro è sempre stato tanto, anche da piccolo, e in quei pochi momenti di libertà – quasi sempre la sera – ogni pretesto era buono per dedicarlo agli amici con il quale ci si trovava aru girone per socializzare e giocare insieme a quei giochi umili e fatte di poche cose, talvolta giochi che simulavano un ripasso generale della poca cultura appresa a scuola, ma dove il divertimento finale era garantito”; così poi narra uno dei giochi di infanzia che lo ha coinvolto in prima persona.
Antonio i Cucuddi racconta:
“Una sera, alla fine dell’estate – avrò avuto sui 15/16 anni – mi ritrovavo ”aru girone” con la ghenga di sempre, saremmo stati una quindicina di ragazzi ed alcuni di essi erano “Minì i Saverio, Capolupi Luigi quiri i Sciabbani, Raffaele i Padjuni, Alduccio i Simeoni e tanti altri che non ricordo.
Quella sera alcuni di noi giocarono a “Indovina la provincia”, gioco ovviamente banale, ma per chi sbagliava ne conseguiva una penitenza difficile e talvolta brutale. Uno dei ragazzi prese la briga di citare le sigle delle province e noi a turno e ad esclusione dovevamo indovinare di quale si trattava. Pertanto quella sera arrivai io alla finale, ma ahimè sbagliai, ed ecco che mi venne assegnata una delle penitenza più antipatiche, ma che dovevo comunque superare sia per mostrare il mio coraggio, sia perché la parola data doveva essere portata a termine.
Mi ordinarono di andare al Cimitero da solo e portare soltanto una torcia per segnalare l’arrivo al luogo da loro deciso. Purtroppo, a malincuore e anche con un po’ di paura, mi incamminai fino al cimitero, accompagnato dalle risate dei più grandi e dall’imbrunire della serata.
Arrivato a destinazione, a circa km. 1,5 dal paese, montai sul muricciolo – allora molto più basso dell’attuale – e come non bastasse il posto, che si può ben immaginare evocava inquietudine, nel saltare per entrarvi dentro piombai su una vecchia tomba che, a contatto con il mio seppur poco peso, si fracassò.
L’esperienza è stata di sicuro elettrizzante e la torcia segnalò il mio traguardo ed il mio atto di coraggio fu portato a termine…”.
Questa è una delle tante storie ricordate dal babbo per narrare la semplicità che tutto permeava all’epoca e, che quei pochi piaceri venivano ritrovati insieme agli amici nei passatempi infantili, anche per dimenticare la giornata sacrificata dalle tante ore di lavoro
per apportare il contributo quotidiano alla famiglia.
Gisella Tiesi
1 commento
Credo di poter confermare che tutti i ragazzi dell’epoca eravamo chiamati a dare una mano in famiglia. Per me, le ore dedicate allo studio erano sacre e nessuno me le toccava, ma una volta che i compiti erano a posto, prima di poter pronunciare la frase ” vaju a ghiessu” c’era da appurare che non ci fosse da sbrigare qualche incombenza alla mia portata. Poi alla domenica, per esempio: nel periodo della raccolta delle castagne c’era da effettuare il traporto delle medisime con una fila del nostro più famoso mezzo di trasporto “u ciucciu”; oppure nel periodo primaverile quando si cercava di mettere “nta pagghiarizza” il fieno per il periodo invernale c’era da aiutare a fare “i mattuli” ecc. I castighi più pesanti verificavano però quando arrivavano le insufficienze, c’era la possibilità che d’estate dovevi fare “a liganti” (dipendeva dall’età) appresso ai mietitori. Insomma il divertimento lo dovevamo stra guadagnare. Giovanni