La redazione & Minucciu
La nascita.
Il nascere “santunatìsi”era un affare piuttosto complicato e l’evento non era esclusivamente riservato alla famiglia ma uno dei tanti avvenimenti “da condividere” perché il nascituro fosse a pieno titolo integrato e godesse, nella prima infanzia, delle tutele e protezioni che la comunità garantiva. Quale primo adempimento veniva esaminata nel dettaglio la discendenza di entrambi i genitori, comprensiva dell’anamnesi nei rami della razza e della relativa parentela, per valutare se, alla luce dei precedenti “ù nìnnu putìadi ghèssi malièsciu”. Erano rivisti e riconsiderati i certi e gli eventuali “trascorsi” del padre; valutato in particolare “si ghèradi stàtu surdàtu, s’aviàdi fàttu ù militàri” perché i soldati notoriamente all’epoca “sì sfucavànu ntè casìni e, cèrti vòti, purtàvanu àra casa ancùnu rinfrìscu”. Vi chiederete del perché l’investigazione riguardava in particolare il padre. Tutto si spiega col dire che la donna all’epoca era molto più “sorvegliata” e diciamo anche, “più timorata” del maschio e di conseguenza, meno soggetta a rischi. Peraltro, le poche che si concedevano qualche distrazione ci “rimanìanu”, perché, restare incinta non appena veniva sfiorata da “nù màsculu”, per le sandonatesi era la nemesi, era cosa molto facile e l’eventuale fattaccio non rimaneva a lungo riservato o nascosto. Il timore maggiore era la presenza di un ramo di pazzia nella razza del nascituro. Credete che dette verifiche fosse opera dei familiari o dei parenti? Macché! Era l’occupazione di conoscenti, vicini di casa, ficcanaso vari, perché il sandonatese è strutturalmente incapace di occuparsi solo degli affari propri. E’ insito, iscritto nel suo Dna che debba conoscere, sapere, essere sempre informato e ininterrottamente vigile; è una necessità di vita perché, il sapere, il conoscere, ti evita commenti inopportuni, ti impedisce di parlare senza riflettere e ti invita a tener conto a valutare chi è presente, chi può sentire o riferire ciò che dici od i commenti che fai, prenderne conoscenza diretta se presente. Parlare a vanvera, poteva e può ancora andare a toccare, anche involontariamente, nervi scoperti, sollecitare talune sensibilità. Queste sono tutte circostanze che possono far nascere acredini, odi ed inimicizie che al momento rimangono silenti ma danno origine a contesti che, “sìnaddìa, ghè cèrtu cà, mò o momò, ù cùnticièddhu à pagà ù prisèntanu”.
Il rione di nascita era importante perché era un marchio che ti accompagnava per tutta la vita; era un vanto il nascere “àra Terra” (custodi della tradizione più antica e della parlata nonché esperti allevatori) o “àru Casàli” (agricoltori, maestri artigiani ed esperti boscaioli) o “àra Chiàzza”o “Crucivia”, (negozianti, artigiani, agricoltori nonché residenti nel primo nucleo abitato dei casali e custodi delle libertà perché si consideravano unici discendenti dei promotori e dei primi sandonatesi attivi nella ribellione del ’48). Questi i luoghi antichi, gli storici rioni sandonatesi. La circostanza meno favorevole, non desiderata e voluta, era nascere “fòra paìsi”; il nato fuori dell’abitato era come se avesse un marchio, un “difetto di fabbrica”, che lo accompagnava per tutta la vita e, per il quale, specie da bambini, nei primi giochi, nei primi contatti sociali, si era scherniti dai coetanei che ti facevano sentire quasi estraneo, trattato come un forestiero e del tuo luogo natio ne spregiavano il nome. “Tannu” era più viva e si acquisiva presto la coscienza della razza, delle proprie radici che più profonde erano più eri considerato. “U santunatisi suncìru” era colui che poteva vantare, (e lo vantava eccome), di non avere “mancu nù mituòicu ntà ràzza”. Per quanto aleatorio, privo di quell’antico ed effettivo peso morale o sociale perché il tempo corre e cancella gli anacronismi della storia, avere e poter ostentare un albero genealogico “suncìru, tùttu santunatisi”, equivaleva a quarti di nobiltà. Ciò era riferito ed aveva diretto legame con la circostanza che, dopo la rivolta del ’48, con l’uccisione del Duca, la decimazione operata sui rivoltosi e la deportazione di intere famiglie sandonatesi, a metà del XVI° secolo vi fu la necessità di ripopolare il paese per renderlo nuovamente produttivo e ciò venne in parte fatto con gente forestiera.
Durante la gravidanza, la donna, se benestante o le condizioni economiche lo permettevano, poteva godere di un relativo riposo. Se era impossidente, lavorava normalmente fin quasi alle doglie come, si raccontava, un tempo successe ad una compaesana che, nonostante fosse scaduto il tempo della gestazione, era andata col marito a cavare patate in montagna, a Rosanitu. Colta dalle doglie aveva partorito e poi era tornata a casa portando, nella “fàvuda” il neonato e “ncàpu nà coddha ì patàni”. Altri tempi ed altra tempra di donna, ma soprattutto esempio di un coacervo di miseria, incuria e patriarcato, portato all’estremo.
Sempre durante la gravidanza, la pancia della gestante era oggetto di osservazioni e commenti che vertevano sulla buona prosecuzione della gestazione e sulle probabili dimensioni del nascituro, del quale si ipotizzava anche il sesso. Se la pancia era “tùnna” nasceva maschio se invece era “appuntùta” il nascituro era femmina; le correnti di pensiero però divergevano perché c’era chi sosteneva il contrario e da tale contrasto originavano liti furibonde con le quali le contendenti, reciprocamente, mettevano in dubbio la competenza l’una dell’altra nel formulare previsioni.
Nei primi mesi la futura madre veniva “spruvàta” su attese, desideri, o preferenze sul sesso del bambino. E giù una messe di consigli sul come agire per aiutare la natura ma anche forzarne la mano nel determinare, secondo i desideri, il sesso del nascituro. C’era chi consigliava l’intervento di persona “singhàta” che, sulle attese della futura mamma, prometteva, a piacimento, di modificare e influenzare il corso della natura, solo imponendo le mani e mormorare formule incomprensibili alternate a preghiere. C’era anche chi, per un nascituro di sesso maschile, consigliava l’esposizione della pancia alla luna crescente e la pronuncia di misteriose parole di antica lingua, da ripetere per tre notti di seguito. L’esposizione alla luna calante favoriva invece la nascita di femminucce. C’era invece chi consigliava di massaggiare l’addome con determinate erbe, in mistura variabile secondo il sesso desiderato. Tradizione voleva che “à tànnu”, il mezzo più certo, ed a mio giudizio anche il più schifoso, per indurre una nascita di sesso maschile, consisteva nell’ingerire “nà vavuleci”, senza masticarla, ed il figlio maschio era assicurato. Peccato per chi ci credeva e praticava questo rito; si tramandava di una donna gravida alla quale avevano pronosticato un parto gemellare. Per venire incontro ai desideri ed accontentare i suoceri, i quali volevano la coppia e così la certezza del maschio che avrebbe perpetuato il nome e la razza, di lumache ne dovette inghiottire due, ciò per sconfiggere, nei nascituri, la predominanza femminile; la cosa finì con la poveretta che scodellò una coppia di gemelle all’incredula parentela che tanto aveva confidato nella tradizione e, soprattutto, nella superstizione.
Le cose andavano proprio così? I vecchi che le hanno tramandate, assicuravano che, “a tannu” queste erano le credenze e le usanze. Come vedremo nel prosieguo.
Pistoia settembre 2012
Minucciu
1 commento
Grazie! Mi hai fatto rivivere una fetta di passato della quale gente della mia età come minimo ne ha sentito parlare, ha sentito i commenti di amici e parenti anziani quando noi eravmo bambini. Giovanni