La redazione & Minucciu
Non ricordo un fine Luglio così caldo come quell’anno. Le temperature non davano requie e si sudava solo al pensare di fare il movimento minimo. Le case avevano porte e finestre aperte anche la notte e si andava a letto non prima delle due dopo mezzanotte, quando la temperatura calava e dava un po’ di requie. Anche quel filo d’aria, che in San Donato generalmente arrivava verso il vespro e dava ristoro, aveva dichiarato sciopero. Il caldo eccessivo aveva indotto i membri del comitato per i festeggiamenti, a rivolgersi al prete prospettandogli la possibilità di rinviare la ormai prossima processione del Patrono, nel caso le temperature avessero mantenuto i livelli correnti, ipotesi che fece rabbrividire le beghine devote del Santo che paragonarono la proposta ad una bestemmia o peggio un sacrilegio.
In questa situazione climatica, un pomeriggio, sempre di fine mese, “àru Sammicuòsu si frisculiàvadi”, seduti sui gradini all’ombra del muraglione vicino “àra càntina ì ziu Luviginu”, con noi ragazzi abbacchiati dal caldo ed insolitamente fermi e silenziosi, perchè non c’era neanche la voglia di parlare. Nella calma più assoluta si sentì un rumore di passi e tutti pensammo la medesima cosa: chi era il coraggioso che con quel caldo aveva voglia di muoversi e camminare?
Ad un cenno di ziu Luvigino uno di noi ragazzi si sporse dalla cantonata, guardò in basso e fece cenno di andare a vedere. Sulla salitella, all’altezza del palazzo di donna Elvira, un uomo anziano, testa coperta da un cappello di paglia, vestito di chiaro e con un paio di scarpe “americane” color marrone, appoggiandosi ad un elegante bastone saliva lentamente asciugandosi, col fazzoletto, il sudore da volto e collo.
Arrivato alla nostra altezza, lo sconosciuto, pronunciò un “bonasira” dal quale, oltre al “paesano”, traspariva l’accento di chi è aduso allo “slang” d’oltreoceano e proseguì la salita verso la Terra; passato il tizio, ziu Luigino ripetè più volte a se stesso “ma ghja a quìssu mì pàridi dò canùsci” e, dopo breve riflessione, concluse: “ghèradi ù Scillirìssu”.
Ziu Luviginu spiegò che il nome di battesimo, della persona sconosciuta a noi ragazzi, era Pippìnu e che l’agnome “scillirìssu” se lo era guadagnato sul campo una quarantina d’anni prima.
Pippìnu, caso raro per quei tempi, era figlio unico e sin da ragazzo aveva iniziato comportarsi come uno scavezzacollo irresponsabile, guadagnandosi in poco tempo fama di “tuostu”. Coperto dalla madre, che spesso si era frapposta fisicamente fra marito e figlio ed in difesa di quest’ultimo, il giovane crebbe con fama di “litraru” dato che malvolentieri si prestava a curare le proprietà di famiglia, ricca in terreni e bestiame. Alla fatica Pippìnu preferiva la vita comoda che le ricchezze di casa gli consentivano, in sintonia con una genitrice resa cieca dall’amore materno ma che per il figlio stravedeva e non nè intuiva nè valutava l’indole vagabonda ed un po’ malvagia.
Il padrone di casa la pensava diversamente; per quei tempi era obbligo per i figli collaborare alla gestione dei beni di famiglia, anche con la fatica fisica. In presenza dei continui rifiuti del figlio, il capo famiglia risolse di tagliargli i viveri. Questa decisione causò continue ed accese liti con la consorte fino a determinare il deterioramento del rapporto coniugale, giunto, in breve, alla definitiva rottura.
A quei tempi non esisteva comunione dei beni ed in caso di separazione ad ogni coniuge restava il possesso dei beni propri, ossia quelli posseduti prima del matrimonio che, nel nostro caso, per la madre di Pippìno erano poca cosa.
In breve le proprietà della madre furono alienate e l’attività di collaborazione domestica e lavandaia, che la donna aveva intrapreso per le famiglie abbienti, non furono più sufficienti al sostentamento di entrambi. Causa la “litraria” ed il carattere inasprito dalle ristrettezze, Pippìnu non fu capace di mantenere un lavoro; passava il tempo frequentando una compagnia di suoi simili, abitudinari delle cantine paesane.
Nell’epoca in cui questi fatti accadevano, i sandonatesi avevano molta fiducia nel prossimo, tanto che le porte delle abitazioni restavano accostate e fermate dal solo “licchièttu” e con la chiave infilata nella serratura, anche in assenza del padroni di casa. Tre o quattro elementi della compagnia, i meno abbienti e fra i quali Pippìnu, decisero di approfittare di questa fiducia ed nelle temporanee assenze dei proprietari, dopo essersi appostati nei dintorni delle abitazioni a turno, si introducevano nelle case e sottraevano quel che trovavano, in beni e masserizie.
Come più volte ho avuto modo di spiegare, in San Donato il segreto non esiste; qualsiasi cosa avvenga, viene risaputa perché vi sono sempre occhi che vedono, orecchie che sentono e soprattutto bocche che parlano. Pertanto quando in paese si sparse la voce che dalle case erano scomparse varie utilità quali, ori, indumenti, formaggi, salumi ed anche pentole fumanti di cibo in cottura, asportate dal focolare, chi aveva visto non si limitò alla chiacchiera ma fece arrivare il messaggio alle orecchie della legge.
Pippìnu e compagni vennero presi, portati in caserma e dopo essere stati “trattati” come si conviene a dei ladri, confessarono tutte le malefatte. I beni asportati, meno naturalmente le cibarie, furono recuperati là dove erano stati nascosti dalla combriccola od in casa di chi, incautamente, aveva acquistato qualche oggetto.
I compari addossarono tutte le colpe a Pippìno che si ritrovò capo di un’associazione per delinquere; nel corso del processo Pippìnu aveva coinvolto i suoi compari asserendo che tutti avevano agito di comune accordo. Aveva di fronte un giudice un po’ stronzo che, non tenendo in alcun conto il basso grado di istruzione degli imputati, gli aveva chiesto se putacaso negava d’aver agito in base ad un “pactum scelèris”, domanda alla quale Pippinu non rispose, perché non ci aveva capito un accidente di nulla. Il padre di Peppino, non aveva saputo tenere la linea dura fino in fondo e, per il figlio, scelse, quale difensore, un principe del foro e noto avvocato in San Sosti, il quale, nel corso dell’arringa difensiva seguita da parecchi sandonatesi, equamente suddivisi fra parti offese e curiosi, più volte tornò sull’argomento “scelèris” che i compaesani successivamente intesero come una malattia di cui Peppino era affetto e come tale invocata dall’avvocato a discolpa. Dal processo Pippìnu ebbe una condanna a circa dieci anni di carcere, perché all’epoca la giustizia aveva la mano piuttosto pesantuccia e non scherzava. In aggiunta alla condanna i sandonatesi gli appiopparono il soprannome di “scillirìssu”, originato in parte dalle misteriose parole pronunciate dal giudice che i paesani avevano elaborato riferendole ad una malattia sconosciuta che aveva condotto Pippìnu, prima sulla cattiva strada e poi in galera. Anche la mamma non trovò nulla da ridire sul soprannome; anzi, ne fece motivo di vanto perché “avìanu dittu judici e avucàti, ca Pippinièddhu ghèradi scillirìssu” ed all’epoca la parola di un avvocato aveva il suo valore, sia per il prestigio che la professione conferiva, sia per “peso e valore” delle parcelle emesse, come ha sperimentato e verificato chiunque in quegli anni si è imbarcato in liti giudiziarie.
Scontata la sua pena, “Pippinu u scillirìssu” come ormai era nominato, capì che la sua permanenza in paese era inopportuna e, soprattutto, sconsigliata perché di risarcimenti del danno non se ne era parlato affatto ed i sandonatesi, “sùpa sòldi e rròbba” non hanno mai scherzato. Padre e figlio, si adoperarono, ungendo a dovere là dove era necessario, fino a che a Pippinu venne rilasciato un passaporto e con quello raggiunse alcuni parenti in America. Ritornò, dopo circa una quarantina d’anni e per una brevissima visita, proprio in quegli ultimi e caldissimi giorni di fine luglio.
Quella fu la prima ed unica volta, che “u scillirìssu” si vide in giro per il paese.
Maggio 2012
Minucciu