La redazione “Come Eravamo” Spranzuni …
Ziu Franciscu nel raccontare le parmarie, talvolta esagerava perché, nel descrivere fatti di sangue o raccontare episodi relativi a presenze ed avvistamenti d’anime inquiete o figure fantastiche, eccedeva in particolari macabri. Una sera il racconto era incentrato su apparizioni e presenze in vari punti del paese ed in particolare sul “lumìru”, mostro spaventevole e personificazione di una figura diabolica, con corpo di serpente e sembianze somiglianti all’umano ma mostruose e deformi. Secondo il narratore, l’entità diabolica era solita apparire all’imbrunire o prima dell’alba, nella periferia del paese, o sulle strade di rientro dalla campagna od in zone vicine a luoghi di culto.
Il lumìru era temibile e terribile perché inizialmente si mostrava gentile ed accomodante e poteva apparire con le sembianze di una persona conosciuta e morta da poco, salvo mostrarsi improvvisamente qual era ed attaccare per mordere, visto che si nutriva di sangue umano e, quando l’occasione era propizia, divorare neonati.
Nell’uditorio c’erano presenti bambini ed adolescenti e la moglie del narratore era inutilmente intervenuta per far addolcire il racconto e, nelle sue intenzioni, salvaguardare i più piccoli e gli adolescenti, facilmente impressionabili.
La donna non aveva tutti i torti perché i nostri vecchi, quando si rendevano conto d’aver catturato l’attenzione, ci davano sotto dando sfogo alla fantasia, arricchendo la vicenda con particolari raccapriccianti e tali da ingenerare paura nell’uditorio, specie quello più giovane.
Ad ascoltare la parmaria vi erano anche Giuvanni e Micuzzu, adolescenti, avendo qualche anno più di me e che mostravano un atteggiamento scettico, spinto fino all’irriverenza verso il narratore, con sussurri, risatine, commenti sarcastici e sottolineature ironiche ai passaggi più truculenti del racconto.
Nonostante l’atteggiamento scettico e disincantato, “a parmarìa dò lumìru” con la sua truculenza, un piccolo solco nelle certezze e nella sicumera dei nostri baldi giovani l’aveva scavato; loro per ora non se ne rendevano conto, non lo sapevano né potevano saperlo.
Circa una settimana dopo i racconti, al cinema davano il film Gli amanti diabolici di E.G. Clouzot, annunciato da quindici giorni, anche a mezzo banditore, quale capolavoro imperdibile del cinema francese.
Stavolta la proprietà del cinema aveva detto il vero. Col passaparola di chi il film l’aveva visto, giudicandolo all’altezza dei migliori polizieschi di marca americana molto in voga in quegli anni, la curiosità suscitata era tanta ed il locale cinema aveva registrato lo strapieno ad ogni proiezione e parecchia gente aveva seguito lo spettacolo in piedi. La storia era avvincente e coinvolgente, trattando di un complicato triangolo amoroso, condito da tradimenti e tranelli, con episodi di violenza, finta morte e resurrezioni volte alla vendetta: Il tutto in un’atmosfera da sobbalzi sulle sedie per gli spettatori dal sistema nervoso meno solido. Una trama avvincente che trattenne tanti spettatori, i quali, finito il film, restarono anche alla consueta ripetizione del primo tempo, effettuata per offrire la visione intera della pellicola a quelle persone entrate a spettacolo iniziato. Giuvanni e Micuzzu furono tra quelli che videro e rividero il film nelle proiezioni di sabato e domenica. A loro insaputa, le atmosfere cupe del film e le scosse da adrenalina che la visione aveva causato, rese molto più profondo il solco scavato dal racconto sul lumìru; un vuoto che di qualcosa si sarebbe riempito di lì a non molto. Ma non anticipiamo i tempi. Anche di questa circostanza Giuvanni e Micuzzu, pieni di sicumera e certi d’avere il mondo in pugno, erano ignari. Non potevano sapere e, loro malgrado, avrebbero scoperto tutto di lì a poco.
Domenica sera, usciti dal cinema attorno alla mezzanotte, i due giovani rientravano presso le rispettive abitazioni percorrendo le strade deserte del paese. Era da poco passata la Pasqua; la temperatura era ancora rigidina e tirava una “sirintìna” che, penetrava sotto i panni provocando brividi ed agitava e faceva dondolare le fioche lampade della pubblica illuminazione. Tutto questo creava una certa atmosfera che, ai nostri due giovanotti, rammentava quella del film il Terzo uomo di L.Carrol, altro capolavoro con attore principale Orson Welles visto la settimana precedente, per Pasqua. Salendo erano transitati “nnànti ù cumùni” e stavano appunto commentando scene dei due film quando avvertirono un suonoe che sembrò un sommesso lamento, quasi un rantolo. Alzato lo sguardo, notarono una figura distesa per terra a metà fra il selciato ed i gradini di una scala dell’abitazione della famiglia Casella. Il “rantolo” proveniva da lì e guardando meglio videro muovere un braccio e sentirono nuovamente il rumore, simile ad un respiro affannoso. Fecero qualche passo in avanti rasente il muretto per scrutare meglio e sincerarsi dell’identità e delle condizioni di quello che era loro sembrata una figura umana, ma non vi riuscirono, perché l’illuminazione era scarsa, il vento, agitando le lampade creava ombre che rendevano la parte superiore del corpo non visibile, anche perché parzialmente coperta dal muro della scala. Si avvicinarono fino all’ingresso “dà firriàta do vàgghiu” e poi le gambe si rifiutarono di proseguire. Nella penombra si resero conto che il “corpo” non aveva i piedi, anzi le gambe sembravano terminare “a cùda”. Un lungo brivido percorse i due giovanotti dai piedi alla testa; avvertirono il gelo che saliva lungo il corpo, faceva tremare loro le gambe e rendeva i capelli ritti. La mente di entrambi ripassò velocemente la vicenda del lumìru, perché ciò che avevano visto disteso per terra ed il rantolo che avevano sentito, corrispondevano esattamente alla parmaria di ziu Franciscu e da un momento all’altro si aspettavano che il “maledetto sdraiato” si girasse a mostrare il volto.
Non attesero oltre. Con lo sguardo rivolto al “mistero sdraiato”, che continuava a rantolare ed a muovere il braccio, quasi un richiamo per loro ed un invito ad avvicinarsi, retrocessero fino al portone del palazzo comunale e li restarono seduti al gradino con gli occhi fissi alla misteriosa figura.
Valutarono strade alternative per proseguire ed evitare l’incontro col mostro. Passare “dè còsti supa Sàntu Vìtu”, per raggiungere “u Sammicuosu”, al buio significava rischiare l’osso del collo perché, dopo l’ultima casa, vi era solo un sentiero, “mpizzu ara costa”, stretto e scivoloso. Ritornare “ara Chjazzètta” e passare “ da Spilùnghura”, famosa per apparizioni e presenze strane, si rischiava di fare altri “incontri”; senza contare che bisognava transitare “arrietu a chiesia”, ed a fianco dello spiazzo recintato ove dal terreno spuntavano ancora frammenti d’ossa del vecchio cimitero. Non restava che attendere e sperare in qualche ritardatario, cui accodarsi per trarre il coraggio necessario ad oltrepassare l’ostacolo.
Dopo aver discusso per far passare il tempo, il sonno iniziò ad avere il sopravvento e, quando uno dei due “capizziàva”, l’altro gli dava di gomito per tenerlo sveglio.
Durarono così fino all’albeggiare e si riscossero al rumore d’alcuni passi. Era ziu Franciscu u mulinaru che teneva nei pressi bottega di generi alimentari e s’era svegliato presto per concordare, con chi doveva effettuarne il trasporto, le quantità di merci da ritirare presso il grossista Galizia, in Castrovillari. I due giovani notarono il commerciante avvicinarsi al “corpo”, raccoglierlo ed avvolgerlo e contemporaneamente sacramentare contro “ì spranzuni” che, non avendo di meglio da fare, avevano massacrato a calci e distrutto uno scatolone di cartone, depositato avanti la porta del negozio, per poi abbandonarlo “sbrancàtu e gnutticàtu” sulle scale di casa della famiglia Casella.
In quel momento Giuvanni e Micuzzu si accorsero del “solco interiore”, scavato dalla credenza popolare e occultato dalla supponenza. Il vuoto del solco, riempito dalla paura, li aveva tenuti inchiodati al portone del municipio fino all’alba. La parte più dolorosa ed inconfessabile della vicenda era che, la sicumera mostrata, non era riuscita a prevalere sull’irrazionale e ciò aveva generato il timor panico che li aveva stravolti. La colpa dell’accaduto? Gli interessati la attribuirono alla scarsa illuminazione pubblica; al vento che agitava le lampade, creando ampie zone d’ombra; allo stesso movimento dell’aria che contemporaneamente agitava anche i margini di un informe e maledettissimo pezzo di cartone, maltrattato a calci da “spranzuni” di passaggio. Fin qui loro, quando raccontarono l’accaduto. Di mio aggiungo che la maggiore responsabilità dell’accaduto era da attribuire alla superstizione.
Questa vicenda era rimasta sepolta nella memoria di pochi strettissimi amici per molti anni. La rendo pubblica ora ed i protagonisti non me ne vogliano. In tema di rievocazioni non mi sembrava giusto tacerla anche perché noi sandonatesi, a quei tempi, eravamo anche così.
Aprile 2012
Minucciu
1 commento
A mio modesto avviso, oltre ad essere un vissuto reale, come tutte le vicende popolari porta con se un significato profondo, una morale. Giovanni