Luigi Bisignani
Come Eravamo:Minucciu …
I castagni…nu tummulu.. stuppieddhu…nu quartu…ntavulate… scuogghjtina
“Arrumìnu falu ppù sàngiuvanni, amìlu ammitièri”. Questa supplica comare Rosa la rivolgeva a “Vrogna”, grosso proprietario terriero ed anche padrino di battesimo di suo unico figlio, con lo scopo di ottenere in concessione “na partita i castagni” da curare, ripulire e raccogliere in autunno. Il compare era irremovibile perchè la donna, sola, non offriva sufficienti garanzie sul pagamento e sulla la completa gestione del ciclo di pulitura, raccolta e trasporto del frutto. Eppoi, ziu Vrogna, preferiva i contratti a danaro e non la sua spettanza sul raccolto. Aveva pertanto respinto la richiesta e non s’era lasciato smuovere più di tanto da suppliche e lagrime della donna. Occorre precisare che la vicenda, da me appresa durante le veglie, “u spustà” che ho citato in altri racconti, si svolge negli anni 40/50. Da tempo immemore, “i scavuzi”, intesi come povera gente senza beni di proprietà, nel mese di giugno- luglio, si recavano presso i proprietari per provare ad ottenere in concessione temporanea “nà partita i castagni”, i cui frutti, una volta raccolti ed adeguatamente trattati per la conservazione, integravano la dieta, gia povera, ed i magri guadagni derivanti dalla “jurnata”, migliorando così, di poco, l’economia familiare.
Il patrimonio boschivo sandonatese, come redditività, è da sempre incentrato sul castagno. Come per ogni bene al sole, anche il castagneto doveva rendere ed effettivamente rappresentava una risorsa, sia per il proprietario, sia per la popolazione, per una sorta di indotto che si veniva a creare. Mi spiego. Da sempre in Sandonato l’accesso ai boschi è stato libero, salvo il periodo della raccolta delle castagne, la cosiddetta “sbarratura” della durata di circa un mese. In questo periodo l’accesso alle “partite” era vietato ad uomini e bestiame e riservato al proprietario ed alle persone da lui comandate, o ai conduttori. Quando le castagne erano “ntavulate” venivano raccolte ed il divieto cessava con la “scuogghjtina”, fase aperta a chiunque volesse raccogliere i frutti residui o far pascolare le greggi.
Nei restanti periodi dell’anno, i boschi erano fonte di reddito per svariate persone che, col consenso tacito dei proprietari vi accedevano per raccogliere legna, proveniente da rami secchi, oppure da rami infettai da parassiti, le “viscogne”, che venivano recisi, attuando così, a tuitolo gratuito, una forma di igiene e pulizia delle alberature. Vi si portavano al pascolo le greggi che “jazziànnu à partita”, fornivano il concime alle piante.Taluni, in genere grandi proprietari, davano l’esclusiva ad alcuni pastori che pagavano tale diritto in natura, in genere una forma di formaggio all’anno. Altro indotto, era generato dalla raccolta dei funghi e dalle “jurnate”, che i proprietari di “partite” più vaste, pagavano “ppiì cogghi e carrà i castagni”.
In ogni epoca, i proprietari, han tenuto ben stretti gli appezzamenti prossimi o non troppo distanti dal paese, dove si recavano personalmente a raccogliere. Se il rango e la posizione sociale lo imponevano, con adeguata sorveglianza, facevano raccogliere le castagne, pagando “a jurnata” in moneta o con parte del raccolto, secondo l‘uso corrente. Gli appezzamenti più lontani e disagiati venivano gestiti malvolentieri ed erano quelli che potevano essere affidati in conduzione temporanea, sempre con un occhio rivolto all’interesse. “A partita i castagni “avieddha renni”, questa era la filosofia “de patrùni”, incluso i ziu Vrogna, così soprannominato, per via di un naso bitorzoluto e di dimensioni tali, da risultare adeguate al suo sostanzioso patrimonio personale.
“Ammitieri” era una forma di mezzadria applicata a tutte le attività economiche riferite a terra e bestiame. Per antica consuetudine, tre colture i proprietari sandonatesi non concedevano “ammitieri”. “A vigna, avulìvi e l’uòrtu, ognùnu ghè miègghju cà pènsadi àru sùa”. Era solo ammesso utilizzare “jurnanti” per lavori pesanti e raccolta. Il prodotto di questi tre cespiti restava al proprietario dei fondi. In casi eccezionali e per mancata coltivazione diretta, il fondo destinato ad orto poteva essere affittato, condiviso mai.
Quando si concedeva l’appezzamento piantumato a castagni, il patto di affidamento prevedeva che il fondo fosse ripulito a cura e spese del conduttore che, con gli sfalci della ripulitura, doveva provvedere a delimitare i confini della “partita” cosi come indicati dal proprietario. Il contratto, verbale e raramente per iscritto, prevedeva varianti. Nella prima, “àpprezzaturu”, un agronomo sui generis, in genere un esperto contadino, si recava presso la partita soggetta a contratto, unitamente al proprietario ed all’affidatario. Dopo aver scelto delle piante, tirava giù alcuni ricci, li apriva ed in base alle dimensioni ed al numero dei frutti, dichiarava la presunta resa in “tummini” e su questa stima venivano fissati i termini economici del contratto. Nella seconda variante veniva applicato “ammitieri”, e non significava che il raccolto era diviso a metà fra proprietario e conduttore. La consuetudine voleva che l’ammitieri poteva avere forme differenti, secondo convenienza. Ad esempio: per ogni tomolo di castagne “cumu vèninu dò pedi” al conduttore ne toccava “nu stuppieddhu. “Si gheranu sèvuti” al conduttore spettava “nu quartu” ed in questo caso, il costo del trasporto, con bestie da soma o con squadre di braccianti, toccava al proprietario. Il conduttore al trasporto provvedeva da se. Siccome “i scavuzi”, in genere non possedevano bestie da soma, il trasporto avveniva, se fatto da maschio ”chhi sacchi ncuoddhu”; se donna “cca curuna, e ncapu”. Solo se il conduttore si sobbarcava le spese di trasporto, il proprietario accordava la divisione a metà del raccolto, appunto“ammitieri”. In questo caso le castagne, “cùmu vèninu dò pèdi” ossia integre e bacate così come raccolte, venivano divise a metà, con una leggera differenza. Al proprietario la misura era “àru cùrmu” ed al conduttore invece “àra rasa”. Restava inteso che durante la raccolta, il proprietario esercitava una certa sorveglianza per evitare appropriazioni indebite. Queste condizioni hanno regolato, per molto tempo, i rapporti fra “chini aviedi a rrobba e chini no”. I primi miglioramenti “ppì chjni ghèra suggièttu ppicchì avìedi bisuògnu” sono intervenuti verso la metà degli anni 50 con aggiustamenti, in calo, sul prezzo del frutto alla pianta. Inoltre la concessione “ammitieri” fu rivoluzionata quando qualche grosso proprietario, pur di non lasciare il frutto sul terreno, ribassò le pretese e concordò di ricevere un terzo del raccolto. La novità era conseguenza della prima fase dell’emigrazione per l’estero e verso il nord dell’Italia, fattore che per la prima volta ha causato la diminuzione del numero di pretendenti alle concessioni, e conseguentemente quello “do piezzù da castagna aru pedi”. Il progressivo spopolamento ha indotto l’abbandono, da parte dei proprietari, delle “partite” più lontane e disagiate e causato l’assenza di manodopera per la raccolta, anche negli appezzamenti più vicini. Verso la fine degli anni 60 c’era più gente disposta a prendersi cura dei castagneti, neanche nelle zone più vicine, cito “i Cuozzi”.
Per anni la castagna è stata un cespite economico importante. Aveva impiego come alimento, si pensi alle minestre, ai dolci, alle marmellate ed alle creme; ai molti impieghi alimentari per gli animali; fresche, assieme alle ghiande, per ingrassare maiali; secche e sminuzzate per polli e pecore. Erano anche una discreta fonte di reddito in danaro liquido. Rammento l’ascesa dei prezzi, causata da acquirenti provenienti dalla Campania e dalla Puglia, attratti dalla buona qualità dei frutti, migliori di altri e di più lunga conservabilità perché, “passati all’acqua”. I proprietari, che avevano selezionato e trattato le castagne in proprio ed i commercianti, che avevano fatto incetta dei primi raccolti comprando dai conduttori, rifiutavano di vendere nell’immediato, attendendo il rialzo dei prezzi perché, a fine stagione, c’era una specie di gara fra “chjni risistiàdi” e spuntava il prezzo più alto. Prezzo che poi era quello che i proprietari pretendevano, quando, a novembre, si regolavano i conti dei contratti a pagamento.
C’era una parte dela popolazione che ai contratti per affidamento delle partite, non aveva accesso. Si escludeva la gente anziana che non garantiva la pulizia, la raccolta ed il trasporto del frutto; si evitava d’aver a che fare “ccù genti storta” e “cchì màli pagaturi”; per ovvi motivi si scartava gente di non specchiata onestà. Poteva succedere che taluno andava a raccogliere, poi nascondeva i sacchi di castagne e provvedeva di notte al trasporto a casa; non si stipulavano contratti con donne sole, vedove o ragazze madri, ritenuti soggetti deboli. Questa discriminazione, che sicuramente contribuiva ad aumentare la miseria degli esclusi, toccò la sensibilità di un avvocato, membro di una delle più influenti famiglie sandonates. Il professionista fece partecipi gli impossidenti, appunto “i scavuzi”, di una norma recepita nelle leggi civili, che faceva riferimento ed era mutuata dal diritto romano, la “res publica, res nulliùs”. L’uomo di legge, convocati i più animosi fra “i scavuzi”, ne illustrò significato ed applicazioni pratiche. Esteso alla raccolta delle castagne, il principio consentiva che il frutto caduto sul limitare della proprietà o sulla via pubblica o destinata a tale uso, esempio le strade interpoderali, vicinali etc, poteva essere raccolto liberamente e nessun proprietario poteva rivendicare alcunché. Non che l’avvocato intendesse fare beneficenza o guadagnare la riconoscenza del popolino perché, da buon proprietario terriero, anche lui aveva stipulato i suoi contratti a strangolare “ù bisugnùsu”. Aveva solo riflettuto sulla circostanza che una famiglia avversaria, aveva estese proprietà coltivate a castagne, olivi e frutta, confinanti con strade di transito. Provate ad immaginare, quanta povera gente si è riversata nelle vie e quanta frutta è stata, a dire dei proprietari, impunemente sottratta in maniera assolutamente legale. La raccolta del frutto caduto sul ciglio e sulla pubblica via, era gia vigente, fra le consuetudini sandonatesi, ma provocava reazioni furenti e liti con i proprietari affatto contenti d’essere, secondo loro, derubati. Dopo la “trovata” dell’avvocato e dopo convulse riunioni presso altri consulenti legali, i proprietari hanno dovuto accettare il principio che è entrato a pieno titolo negli usi e costumi di San Donato. Dell’usanza, più di altri, ne hanno approfittato i “quatrari” della mia epoca, che andavano a raccogliere le castagne, in genere un paniere, e le barattavano, con eguale quantità di cachi, portati in paese dai commercianti della piana.
Le castagne, per essere redditizie, dovevano essere separate. Quelle bacate o minute, erano destinate all’alimentazione animale e poste su cannicci per affumicarle e farle seccare. Ciò avveniva nella stanza ove era presente il caminetto e generalmente adibita a cucina. Nel periodo della tostatura, un mese circa, si evitava di cenare con riso o pasta minuta perché, il freddo spingeva a consumare cena nei pressi del camino, sotto i cannicci dai quali cascavano i ”viermi da castagna”, bianchi e confondibili con la pietanza minuta. Le castagne sane, venivano passate all’acqua, mediante immersione in grossi recipienti e poi stese ad asciugare, nell’attesa di venderle, avendo cura “dè rìminà àru spìssu” per evitarne la fermentazione.
Si raccontava che “ziu Vrogna”, citato all’inizio del presente racconto, persona avida, avendo notizia che “ù prìezzu dè castagni fatti all’acqua acchianàvadi”, tenne il raccolto nei magazzini rifiutando ogni proposta d’acquisto. “Carrucchjàru cùmu ghèradi”, volle “sparagnadi” e per non pagarlo, evitò di chiamare l’operaio che solitamente badava a “riminà” i castagni. Ziu Vrogna, vecchio proprietario e contadino, probabilmente aveva dimenticato che, non arieggiandole, le castagne fermentavano, che la fermentazione produce calore e che il caldo umido “fà cigghjadi”. Forse sperava che ciò non accedesse, bastava un ulteriore piccolo aumento del prezzo ed avrebbe ceduto. Quell’anno c’erano temperature più miti e nel giro di due/tre giorni, svariati tomoli di castagne, ammucchiate nei magazzini, germogliarono. Il guaio fu scoperto quando ziu Vrogna si decise ad accettare il prezzo propostogli e, per chiudere la trattativa, mostrare la merce al compratore. Nei pressi dei magazzini c’era un odore che non prometteva nulla di buono e Vrogna ebbe conferma del disastro appena varcatane la soglia. “Vìdi i castagni ccà cùda e ssì fa vinì nù nzùrtu” fu un attimo. Perse conoscenza al pensiero che tutto quel ben di dio andava buttato. Il risveglio fu molto amaro perché al mancato guadagno si aggiunsero, una semi invalidità e la non completa autosufficienza, per sua fortuna temporanee. Gli alti costi di medico e delle medicine, che vennero sommati a quelli per la salata paga, a giornata, da corrispondere, per assistenza e servigi, a comare Rosa. La donna, non perse occasione per prendersi la rivincita per la angherie sui Vrogna l’aveva sottoposta e vista l’assenza di alternative, pattuì un prezzo alto per le sue prestazioni e non si lasciò impietosire dalle suppliche i ziu Vrogna, che richiedeva assistenza semi gratuita, “vistu cà c’eradi ù sangiuvanni”. Rosa, sapendo benissimo che in paese nessun’altro avrebbe accettato di mettersi a servizio di ziu Vrogna ed essendo l’unica che poteva trattare con un vecchio despota, non acconsentì ad una retribuzione “cchjù vìli” e pretese che le i suoi servigi venissero pagati cari e salati. Durante i mesi necessari per ristabilirsi, oltre ad assisterlo, comare Rosa rinfacciò al vecchio tutte le umiliazioni che, causa la povertà, aveva dovuto subire. Gli fece “affrùntu” palesandogli che lei era e restava indigente, ma in salute, mentre lui della “rrobba” non aveva mai goduto, perché spilorcio e non ne avrebbe goduto da qui in avanti, perché “i malasalùti”. E’ senz’altro crudele approfittare della condizione di invalidità di un vecchio. Prima “ì judicà cummàri Rosa” bisogna aver provato cosa significa, per tutta la vita, avere qualcuno che “ti mìntidi e tènidi nù pedi sùpa ù cuòddhu e non tì fa nè mangià e nemmàncu suspirà “
Ottobre 2011
Minucciu
3 commenti
Non c’è che dire caro Minucciu, un bel racconto! Un racconto che è storia vera, di vita vissuta dalla nostra gente del passato. Di questi fatti ho vaghi ricordi di racconti da parte di mio padre circa la miseria che trovava a Verbicaro quando andava in cerca di aiuto per accudire i nostri animali. Per quanto meravigliosa la nostra terra ha costretto la nostra povera gente sempre ad immani sacrifici. Saluti!
bravo, veramente bravo e grazie
Una meraviglia! Grazie. Attraverso il racconto sono riuscito a capire le frasi trascritte nella parlata locale. Alcune parole le ho adattate alla mia ( Sinagra, in prov. di Messina) per es. mitateri per mitieri, tummulu per tumminu, altre sono tali e quali ( a rasa, a curma, …). I fatti sono identici, segno che la nostra storia e cultura ci accomunano, da millenni!
Bravissimo!