Luigi Bisignani
Dal titolo si potrebbe dedurre che i sandonatesi dell’epoca erano gente un po strana “giocavano a farsi prigionieri”invece no era tutt’altra cosa.
Un bel Racconto storico di come eravamo ,prima parte ““Quannu si faciànu i carcirati”
Una storia divisa in tanti episodi che vi raccomando di leggere chiudere gli occhi e ripensare a questi splendidi momenti…
“Quannu si faciànu i carcirati”.
“Ari santunatisi” più giovani, il titolo del presente racconto, sebbene espresso in dialetto, può darsi non dica nulla od al meglio, richiamerà alla mente la privazione della libertà personale.
Nulla di tutto questo. Anzi, quando la tradizione di “ fa i carcirati” era in uso, significava avere un breve periodo di libertà, meno di una settimana, in cui a tutti i maggiorenni, erano consentiti atti, comportamenti ed atteggiamenti che in tempi normali avrebbero suscitato “gabbu”.
In un paese di tradizione agro-pastorale quale é San Donato, dopo la raccolta delle olive, iniziava un periodo di tempo che poteva definirsi del “grande silenzio” Dalla seconda metà dell’autunno alla prima metà di primavera, dall’imbrunire all’alba l’unico rumore che si udiva era lo scalpiccio “de scarpi ‘cchi tacci”, frammisto al rumore degli zoccoli ferrati d’asini e muli, compagni dei sempre meno frequenti viaggi, da e per la campagna.
Rare e sommesse le voci, quasi a sottolineare la stanchezza di una stagione di lavori. Unici schiamazzi fuori luogo erano quelli tardo-serali degli avvinazzati, avulsi dall’ambiente generale e che non facevano testo.
Verso la primavera, all’alba allo scalpiccio gia detto, si aggiungeva lo stridio delle rondini che numerosissime si appollaiavano sui fili della rete elettrica.
In questo ambiente “idilliaco e francescano” giunge il periodo di carnevale e “nu quatraru” dorme beatamente, stanco di gioco ed unico a non avere obblighi di produttività.
Nella notte, prima lontano e flebile, poi sempre più vicino e distinto, avverte il suono di accordi di musica a “taranteddha” che virano al lento sin quasi a fermarsi ed una voce solista intona una canzone dialettale, con l’ultima rima ripetuta in coro. In ogni epoca e fino a che la tradizione è stata mantenuta, questo era il primo contatto dei “guagliuni” con la tradizione di “fa i carcirati”.
Uso voleva che nella settimana conclusiva del carnevale, gruppi di paesani, preferibilmente amici o vicini di casa, in ora tarda, mascherati, in genere con abiti e/o vesti del sesso opposto e con il volto reso irriconoscibile da segni di nerofumo, tiravano l’alba girando per le contrade prossime a quella di residenza, fermandosi a cantare nei pressi delle abitazioni di amici e conoscenti.
Per tradizione, le famiglie destinatarie degli omaggi canori, offrivano da bere. Talvolta mettevano a disposizione dei cantori, “nu muzzicu i sàvuzizza, sùpprissata, capaccuòddhu, vùccularu, càncarieddhi nta l’uògghju, scapìci, avulivi aru fuornu”, comunque una razione di provviste adeguate “ ara ricchìzzi da casa”.
All’invito, seguiva il congedo della compagnia con una stornellata di ringraziamento ed il giro continuava.
La modalità di canto in generale, non solo quella carnevalesca, era varia. C’era il canto di amicizia, quello di lode, di ringraziamento, dell’innamorato (accettato o respinto), di critica, di rimprovero, di accusa e di diffamazione.
Fra gli strumenti usati in accompagnamento ai versi,oltre a “cìrameddhj, àriganiettu e tammurrieddhj cchì ciancianeddhj” veniva utilizzata anche la chitarra battente o “catarrinu” a quattro corde. “U catarrinu” veniva preferibilmente utilizzato per le serenate.
Vigeva l’improvvisazione. Per tramandare i componimenti usava solo la forma verbale. Di conseguenza, ciascuno poteva arbitrariamente modificare, aggiungere o adattare alla bisogna, canti ideati da altri.
I rimatori e gli improvvisatori più talentuosi e bravi erano prenotati per tempo ed in alcuni casi persino retribuiti, per tradizione, con prodotti alimentari.
Nessuno pensava di disturbare l’attività canora dei carcerati. Nel caso di incontri fortuiti, ai limiti dei confini di quartiere, fra compagnie diverse (gli sconfinamenti erano raramente tollerati) i canti erano di amicizia e stima reciproca od al massimo qualche sfottò, che però riguardava faccende private fra singoli e non il gruppo. Gli incontri si potevano benissimo evitare perché gli spostamenti, della compagnia erano sempre accompagnati, minimo dal suono della “ciranmeddha”
Non sempre però le cose andavano lisce, Talvolta i “carbunieri”, che generalmente intervenivano su sollecitazione di qualcuno, potevano guastare la festa ma succedeva di rado (si ha memoria di controlli assidui solo nel ventennio fascista). Il pericolo maggiore era rappresentato dal tipo di “cantata” che si faceva, perché i versi non sempre erano di omaggio.
Poteva capitare che alcuni, approfittando del gruppo, richiedevano di farsi “na dispinsata” e coglievano l’occasione, non essendo immediatamente riconoscibili, di fare “a cantata malamenti”,quasi sempre per ripagarsi di uno screzio, rinvigorire una lite, rinverdire vecchi rancori, vendicarsi per uno sgarro od una proposta di matrimonio rifiutata.
Per questo tipo di cantate, più frequenti “a cucchja cantanti-sonaturu”, se fatte durante “i carcirati”, non v’erano bevute ma, dalla casa interessata, veniva “offerto” un lancio i “pisciaturu”, solidi compresi. Nel caso di sfottò leggeri, veniva gettata acqua sporca
Il recipiente da lanciare “ari carcirati”era pronto da giorni perché in San Donato nulla accadeva per caso. Chi sospettava di essere potenzialmente era soggetto di satira” lo sapeva e s’aspettava la cantata, perché ognuno conosceva le proprie “rogne”.
“Stannu toccadi a nnui, nnicci fanu a parti o nnicci veninu a cantà malamenti”. Questo era il pensiero ricorrente de
“i picati” che attendevano “armati di pitale o sicchiu” dietro porte e finestre.
A “santudunatu” “u sacretu”è una leggenda ed anche un mito. Qualsiasi cosa tu faccia o dica, in bene o in male, anche se sei nel luogo più riposto ed isolato, tutto ciò che accade viene risaputo, riferito, tramandato. Non chiedetemi come questo possa succedere perché non ho mai scoperto questa alchimia. Ve lo dice uno che ha passato metà della vita, finora vissuta, pagato per impicciarsi dei fatti altrui, anche quelli più reconditi e segreti.
Sembra, anzi è sicuro, che ogni luogo e angolo del paese abbia occhi ed orecchie per vedere ed ascoltare le faccende altrui e bocca per riferirle.Il segreto, in San Donato, è appunto una leggenda ed un mito, non esiste.
Il periodo peggiore per le vicende paesane, che si voleva far restare segrete, era appunto “carnivali” e per due avvenimenti.
–“A PARTI”: Era una recita satirica che una temporanea “compagnia di giro”, (nel periodo aureo anche più di una) portava a spettacolo nelle piazze e negli slarghi d’ogni rione sandonatese. Nella rappresentazione, a sfondo
umoristico-satirico, venivano messe alla berlina tutti gli accadimenti del paese durante l’anno. I fatti oggetto della “parti”, erano riferiti a vicende che potevano avere risvolti di presa in giro,quali: dissesti patrimoniali dovuti a scialacquamenti (il gioco delle carte era ed è un vizio molto comune fra i sandonatesi), corna, matrimoni rifiutati, fidanzamenti finiti male brutte figure, episodi da farsi “gabbu”. Su queste vicende i rimatori si scatenavano e la recita dava precedenza ai fatti accaduti nel rione.
Fra gli attori si prestava molta attenzione a non dare motivo di risentimento o adito ad azioni legali. Presa in giro si, ma nessuna indicazione o riferimento diretti per i protagonisti delle vicende oggetto della satira. La compagnia che più alla lontana dava corpo ai fatti era la più premiata, anche perché, gli spettatori sapevano benissimo la vicenda cui si faceva riferimento ed a quale famiglia o persona la recita era riferita.
La goduria maggiore per il “popolaccio” era costituita dal constatare l’assenza “de picati”, persone o famiglia oggetto della “parti” la cui abitazione veniva sbarrata. In questo vi è una buona dose di crudeltà ma “u santunatisi ghe puru quistu”.
Qualche giorno dopo recita, la compagnia di attori, in abiti di scena (anche per la “parti” era prevista una mascheratura), faceva il giro del paese armato di “damiggiani, cistieddhi, sporti e panari” a fare “coraisima” ossia riscuotere il tributo consistente in vino e prodotti di casa, graditissimi “savuzizza e supprissata”. I più bravi, a lasciare il segno, ossia “ a tingi” ovvero i “cavudari”, avevano di che scialare per giorni.
“I CARCIRATI”: Tradizione della quale ritengo di aver gia esaurientemente spiegato.
Poteva succedere che nonostante le precauzioni, accidentalmente durante “a parti”, o intenzionalmente durante i “carcirati”, qualche sensibilità venisse offesa. Travestimento o no, le persone offese, sapevano benissimo come, dove e da chi andare a chiedere ragione. Era di prassi ripagare lo “sgarro” con qualche “curtiddhata” o “na paliata”. Tutto dipendeva dalla gravità dell’offesa e da quale “tipo” di famiglia si andava a stuzzicare. La reazione non era immediata, c’era tempo. Talvolta si attendeva che l’autore avesse la sensazione che l’offesa fosse stata dimenticata. Ciò metteva a riparo i vendicatori. Il punito non sapeva a chi ed a che cosa attribuire “a malannata” cadutagli fra capo e collo.
Tutta la “produzione teatrale” sulla quale si è basata la tradizione della “parti” e dei “carcirati”, non è mai stata scritta. I rimatori e gli improvvisatori, in maggior parte se non totalmente analfabeti, trasmettevano le loro “opere” in forma verbale. Gli attori ed i cantori che operavano durante le feste e, maggiormente a carnevale, dovevano imparare i testi a memoria. Non esiste nessun documento scritto, che tramandi e documenti secoli di componimenti in lingua sandonatese.Ed è un vero peccato perché, tradizione vuole, vi siano stati autori eccellenti sia per forma poetica sia per vena umoristica.
Fine della prima parte
Settembre 2011
Minucciu
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9 commenti
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mahhhhhhhhhhh
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Leggete e riflettete un po a come si divertiva tutti insieme …tutto il paese feteggiava questa ricorrenza” i Carcirati”
grazie minucciu di farci rivivere questi periodi spensierati….
Ciao a tutti i Sandonatesi che ricordano le Tradizione dei bei momenti di tranquillita felicita’ tra vicini di casa dove cera armonia singerita’ unione orgoglio del proprio vicinato. Carrissimo Minuccio grazie mille per il tuo racconto dei bei tempi Sandonatesi.I CARCIRATI. Io come personona posso raccontarti era il piu’ bel modo di essere uniti allegri in compagnia io manco dal paese da 12 anni e gli ultimi anni che ero al paese lo facevamo ancora tra tutti gli anziani volenterosi si univano molti giovani contenti di restare fuori fino alle prime luce del giorno. Io sono uno dei Sandonatesi che mi piace le vecchie tradizione nel dimostrare che per oltre 15 anni o recuperato l’ arte del ciabbattino, ( U SCARPARU ) a te Minuccio che non ti vedo da tantissimi anni penso di aver capito chi sei io avevo il negozzio di zio Franciscu i Mazzola, tra il negozzio di Matalena i cucci e zio antonio i pucciani. che in quel negozzio ne o sentite storie ricordi bellissimi venivano li sedersi sfogliavano i sui cari riccordi auguroni Minuccio saluti a tutti i paesani iniziamo con i bei ricordi per far rivivere San Donato.
Settimio, per chi mi ricorda da piccolo SETTIMUCCIU…..
A Settimucciu dico che ricordo benissimo chi è, avendo avuto sua madre come “cummari i vattisimu”.Dovrebbe rammentare anche i compimenti ricevuti dai miei familiari quando andai a salutarlo “ara putiga i scarparu” che lui aveva trasformato in museo delle attiuvità agricolo-artigianali.Saluti carissimi Settimucciu.
A “Luna” dico invece che l’ermetismo, in poesia, non mi era congeniale così come non piace nelka vita e nelle relazioni sociali. Va bene la proverbiale parsimonia dei sandonatesi, ma ” fà carròcchjia” anche sulle parole! Suvvia. E non me ne voglia.
Grazie mille caro Minuccio? non parole avevo capito chi eri, nel percorso della grande storia Sandonatese, ti porgo un caloroso abbraccio di vero cuore dettomi da lei: A COMMARUCIA tua ti abbraccia, mi racconta ancora tante cose del passato, tanti ricordi un abbraccio a tutti in famiglia se mi fai avere il tuo mail ti scrivo…
Grazie Sig. Minucciu, chiunque tu sia.
Ne avevo quasi perso memoria, non di carnivali e coraisima, del modo di festeggiare tali ricorrenze. È dal 1965 che non sono capitato più a San Donato durante tale ricorrenza.
Se non ho capito male Lei stesso ha dichiarato di avere passione sia per il componimento di racconti che di poesie, allora se ne ha la voglia e la passione perché non si cimenta nel creare, in merito, dei documenti da tramandare ai posteri? Si può fare?
Cordialissimi saluti a Lei e a tutti i San Donatesi vicini e lontani! Giovanni Benincasa
Benincasa egregio.
C’è un equivoco, solo allergico alla poesia come autore. Quale scrittore mi reputo un onesto manovale. La “letteratura” che produco è frutto della memoria,di qualche vecchio appunto e di ricerche su testi vecchi di almeno un secolo. Sono sandonatese fino al midollo anche se ho “abbandonato il paese” da 47 anni. Continui a leggermi,non risparmi le critiche,spero di lasciare qualcosa alle nuove generazioni. La saluto. Minucciu
Autore
Premetto e ricordo che il il giornale é stato creato da me stesso con lo scopo di dare la possibilità a tutti i sandonatesi di esprimersi ,di tramandare le usanze del passato facendo dono ai nostri giovani sandonatesi di tutti questi bei ricordi…auguro solo che molti altri paesani posssano esprimersi liberamente e senza pregiudizi e nel loro scritto particolare,non siamo qui per gudicare ,tizio o ciao per la forma,ma apprezziamo nel giusto valore il tramando di tradidzioni per i nostri giovani tramite questo piccolo spazio Web…certo si potrebbe migliore ,ma non siamo professionali della scrittura…rispettiamo coloro che hanno il coraggio di scrivere qualcosa,ringraziamoli per il loro lavoro, le loro ricerche…lasciamo per i posteri tutte queste belle tradizioni …un caro saluto a ringraziamenti vanno a tutti coloro che partecipano ad arrichire questo piccolo giornaletto web…!!
cordiali saluti a tutti
L.B.
Sig. Minucciu, la Sua modestia è molto apprezzata, ma scriva sempre su San Donato, sicuramente Lei ha avuto molto più cura di me del rapporto con il suo paese, eppure almeno virtulamente non l’ho mai lasciato. I miei quindici anni vissuti tra San Donato e Arcomano hanno lasciato in me qualcosa di indefinibile, eppure, ora, le persone a cui sono legato da profondo affetto familiare sono solo mia sorella e mio nipote con la sua famiglia, con una nota a parte per i tre amici che sono stati più presenti nella mia vita almeno fino al venticinquesimo anno d’età.
Io il paese l’ho lasciato nel 1965 a 15 anni di età e da allora i rientri sono stati sempre molto poveri di tempo, ma virtulamente non l’ho mai abbandonato anche se ormai credo di essere solo noto ai parenti di età pari alla mia o più grandi di me.
Chiedo scusa mi sono lasciato prendere dalla nostalgia.
La saluto sperando di leggere al più presto qualche altra chicca del/sul nostro San Donato. Giovanni Benincasa